Woke
Personalmente, non ho mai pensato di voler cambiare il mondo.
L’idea non mi ha mai neppure sfiorato. Quando ero molto giovane, questo sì, speravo di riuscire a vivere in un mondo non completamente iniquo, e pensavo che la Politica fosse la disciplina nella quale impegnarsi per poter ridurre le troppe ingiustizie e contraddizioni del vivere sociale. Detto questo, non mi sono mai impegnato attivamente in Politica, se non molto brevemente qualche anno fa, e solo a livello locale. Per indole non sono uno che partecipa alle manifestazioni di piazza, nemmeno quando ne condivide le motivazioni. Attorno ai vent’anni mi avvicinai timidamente, per un po’, alla Pantera universitaria. Ma durò pochissimo. La vita mi sembrava improvvisamente diventata un susseguirsi ininterrotto di slogan e dogmi. Non sono mai stato un tipo da stadio.
Eppure, la pulsione a “cambiare il mondo” è connaturata a tutti gli esseri umani, almeno quanto quella a volerlo conservare così com’è.
Quando ero giovane, complici anche anni di relativa pace sociale e di crescita economica in Italia, i famosi anni Ottanta e Novanta, credevo che fosse possibile ottenere i miglioramenti necessari grazie al dialogo fra tutte le parti sociali. Una delle caratteristiche che credo di possedere è quella di riuscire, almeno in parte, a vedere le ragioni dei punti di vista diversi dal mio e, in genere, di riconoscere loro pari dignità. Questo è un pregio che quasi tutti rivendicano ma, naturalmente, è molto più raro di quanto non si voglia ammettere.
Non si tratta quasi mai, infatti, semplicemente di comprendere il punto di vista dell’altro, ma di empatizzare con esso. Di comprenderlo emotivamente. Questo è molto più difficile. La capacità di mettersi “al posto dell’altro” procura, infatti, non poche difficoltà: vedere davvero le ragioni degli altri significa mettere seriamente in discussione le proprie.
Pensavo tuttavia che, se si fosse riusciti in questo difficile esercizio, anche il sistema socio economico nel quale tutti viviamo fosse riformabile a piacimento. Da tempo, non lo credo più.
O meglio, non credo più che la Politica, intesa come competizione di idee e di programmi, sia una strada percorribile, qualora si voglia veramente cambiare. I meccanismi che legano la politica ufficiale agli interessi economici sono infatti troppo complessi e rodati perché li si possa sensibilmente modificare. Non parlo, qui, di corruzione: ma proprio dell’intreccio inestricabile fra interessi economici “legittimi”, a volte persino “strategici”, e azione politica. L’aumento esponenziale della comunicazione politica e l’esigenza, da parte di qualsiasi gruppo politico in una qualsiasi democrazia occidentale, di garantirsi continuamente il consenso nel breve termine, ha ulteriormente inibito la capacità della Politica di farsi portatrice di una qualsiasi idea veramente rivoluzionaria.
Ora. Essendosi la Politica rivelata insufficiente per “cambiare il mondo”, negli ultimi anni il cambiamento è passato attraverso battaglie di carattere culturale. Questo è abbastanza naturale. Movimenti come il Me Too, l’attivismo LGBTQ, il Black Lives Matter, l’ambientalismo di Greta Thunberg, la Cancel Culture, l’atteggiamento “Woke” in generale influenzano e dividono l’opinione pubblica molto più del dibattito politico in senso stretto.
Tutto questo dibattito è accolto, da parte delle persone, talvolta con favore, talaltra con fastidio. Il fatto che molti di questi temi vengano in genere sposati dalla Sinistra politica internazionale che, nel frattempo, sembra sorda, o comunque largamente inefficace nella propria missione di far fronte alle crescenti difficoltà economico sociali di strati sempre più ampi della popolazione occidentale, contribuisce di molto al fastidio. I temi woke vengono spesso infatti percepiti come la foglia di fico dei “radical chic”: i famosi comunisti col Rolex (che, presumibilmente, non sono gli stessi che mangiano i bambini) i quali pontificano sul modo in cui dovremmo vivere mentre dimenticano di occuparsi di rendere la fiscalità più progressiva, di distribuire la ricchezza in modo più equo, o lasciano che le grandi multinazionali sfruttino il nostro lavoro e la nostra credulità senza muovere un dito ed, anzi, sostenendole nell’impresa.
Un altro motivo di fastidio è che, nascendo gran parte di questi movimenti negli Stati Uniti d’America, nazione caratterizzata da ontologico estremismo, ed essendosi estesi al mondo anglosassone in generale, alcune delle novità che si cercano di introdurre appaiono assurde al senso comune.
Ricordo una cena con un produttore americano, un paio di anni fa, che mi raccontava che ad Hollywood era ormai considerato impensabile per un uomo tenere una qualsiasi riunione a porte chiuse con una donna. Le porte degli uffici dovevano restare sempre aperte. E’ di questi giorni la notizia che il senato accademico dell’Università di Oxford ha deciso di “decolonizzare” il programma della Facoltà di Musica, riducendo la centralità di Bach, Mozart e Beethoven e ragionando su modi woke di modificare la notazione musicale, ad oggi il linguaggio più universale che esista, originata dal lavoro del nostro Guido d’Arezzo. Pochi mesi fa, Channel 5 ha annunciato l’intenzione di produrre una serie nella quale Anna Bolena sarà interpretata da Jodie Turner-Smith, un’attrice nera. Sono ormai quasi quotidiane le polemiche sulla cancel culture che si esercita su monumenti, film o libri ritenuti portatori di valori incompatibili con l’esigenza di affermare l’eguaglianza di tutti gli esseri umani.
Gran parte delle persone che conosco storce il naso di fronte a quelle che considera posizioni estreme. Quando ho saputo che Anna Bolena sarebbe stata interpretata da una donna di colore, o quando ho sentito che l’importanza attribuita alla musica di Bach viene ritenuta responsabile del dominio culturale dell’Uomo Bianco… quando ho saputo che si volevano abbattere le statue di Cristoforo Colombo, o che non si può parlare di compensi professionali o di strategie aziendali con una donna dietro ad una porta chiusa…e molte altre volte, anche io ho storto il naso.
Però, forse mi sbagliavo.
Perché, infatti, al di là dei rancori e dei pregiudizi politici, queste tendenze culturali sono a volte così disperatamente esasperanti? Non è forse perché esse mettono profondamente in discussione il nostro modo di essere, la nostra cultura dominante? Perché mettono in discussione noi e ciò in cui ci riconosciamo? E come dovrebbe cambiare il mondo, se non attraverso un cambiamento del modo in cui noi lo vediamo?
Ricordiamoci: comprendere le ragioni degli altri non significa solo comprenderle razionalmente, ma soprattutto comprenderle emotivamente. Mettere in discussione le proprie. Questo è esattamente ciò che la cultura woke ci costringe a fare.
E, dunque, esaminiamo qualcuno di questi “estremismi”.
Un amico (nero), mi ha fatto notare ad esempio che le stesse persone che si scandalizzano per la scelta della Anna Bolena di colore sono quelle che accettano senza battere ciglio la rappresentazione di Gesù Cristo come di un bel ragazzo bianco, biondo e con gli occhi azzurri. Mi si dirà che nessuna persona sana di mente, fermandosi a riflettere per più di venti secondi sul fatto che Gesù fosse nato a dieci chilometri da Gerusalemme, possa ritenere credibile che egli potesse essere biondo e con gli occhi azzurri. E tuttavia, il punto cruciale è esattamente questo: nessuno si sofferma su questo pensiero per più di venti secondi. Lo si dà per scontato. Ciò che conta, infatti, non è la realtà, ma la rappresentazione che ne diamo, e chi ha il potere di imporre al mondo questa rappresentazione.
Il mondo accetta senza discutere che Gesù fosse bianco e biondo perché l’Occidente lo ha così rappresentato per due millenni. Ma questa rappresentazione serve indubbiamente per stabilire un modello egemonico. La Cristianità si è identificata per secoli con l’Occidente, è dunque Cristo è caucasico. E chi può negare che tale rappresentazione sia stata strumentale alla costruzione di una presunta superiorità morale degli occidentali nei confronti delle altre popolazioni del mondo?
I ritratti di Anna Bolena la dipingono come una donna bianca, ma se la rappresentiamo come nera per un tempo sufficientemente lungo, nessuno penserà più al fatto che fosse bianca. A pensarci bene, in via puramente teorica, poiché di Anna Bolena possediamo unicamente dei ritratti ad olio, non abbiamo neppure la certezza matematica che ella fosse bianca. Nemmeno giudicando dalla sua celebre figlia. Diamo semplicemente per scontato che le celebrità europee del passato fossero bianche. Nell’immaginario collettivo, abbiamo cancellato qualsiasi ipotesi diversa. Quante persone sanno, ad esempio, che Alexandre Dumas padre, l’autore de I Tre Moschettieri era di origini etniche miste, fra l’altro anche molto evidenti? Che l’Imperatore romano Settimio Severo era “nero” (come testimoniano le monete auree che lo ritraggono con la moglie ed i figli, e sulle quali, diversamente dai loro, il suo volto è bronzeo)? Che Sant’Agostino era di etnia berbera?
L’iconoclastia è una brutta cosa, certamente. Eppure. Se un ragazzino nero nasce e cresce in un appartamento affacciato sulla statua di uno schiavista del passato, quale messaggio viene trasmesso al ragazzino, che lo introietta in modo inconscio? Che, dal momento che la statua non viene rimossa, la società nella quale egli è nato, vive e morirà, ritiene ancora oggi giusto celebrare uno schiavista. Può darsi che questa sia una lettura semplicistica: ma, ancora una volta, cerchiamo di empatizzare con il ragazzino. La prima volta che egli chiederà ai suoi genitori di chi sia la statua, essi gli racconteranno la storia di uno schiavista. Prima che il ragazzino arrivi ad un’età e ad un livello culturale sufficienti per farsi delle domande sulla opportunità, o meno, di abbattere le vestigia del passato, egli avrà assunto come dato di fatto che la statua non ha per lui e per i suoi avi lo stesso significato che ha per i bianchi. E che la società nel suo complesso è ancora felice di ribadire l’antico rapporto di potere.
Sulle occasioni professionali che il mondo offre alle donne un altro amico (maschio, bianco) mi ha fatto notare che il fatto che la vulgata politicamente corretta voglia oggi che le donne debbano ricoprire un certo numero predefinito di posti di responsabilità, tendenzialmente pari a quello degli uomini, a prescindere dalle loro competenze effettive, è un autogol per le donne ed uno svantaggio per la società in generale. La mancanza di competenze oggettive, infatti, non causerà che il loro fallimento e la conseguente inefficienza del sistema. Sarebbe molto giusto, se lo stesso discorso lo si facesse anche per gli uomini incompetenti, dei quali, grazie a Dio, non manchiamo. Un uomo incompetente non è “un uomo” incompetente, ma semplicemente un incompetente. Una donna incompetente, resta “una donna” incompetente. La sua incompetenza viene inconsciamente posta in relazione con il suo genere.
La musica di Bach è, per quanto mi riguarda, una delle espressioni più alte del genio umano in generale. E tuttavia, non esiste certo solo Bach. L’unico elemento che porta le persone come me ad arricciare il naso nel sentire la storia dell’Università di Oxford è il suo presupposto: non si vuole cercare di ristabilire un po’ di equità nella conoscenza del panorama mondiale, allargando gli orizzonti degli studenti con nuove informazioni. Ma si vuole con questo “punire” il povero Bach, che al panorama musicale mondiale non ha fatto che del bene. Eppure è incontestabile che l’Occidente abbia imposto la grandezza della propria arte al resto del mondo, e che il mondo, in termini generali, abbia finito con il far coincidere l’idea del capolavoro artistico con la sonata di Beethoven o con il quadro di Leonardo. Il fatto che esistano delle ragioni tecniche oggettive per definire alcune vette artistiche come universalmente eccezionali non intacca la verità di fondo che i criteri secondo i quali definiamo tali ragioni sono stati stabiliti da noi. Da noi maschi, bianchi, occidentali.
E dunque, siamo noi ad essere messi oggi in discussione. E’ evidente che questo ci fa paura. Il nostro inconscio si sente aggredito, e noi ci mettiamo sulla difensiva. Cerchiamo di opporre argomenti razionali. Polemizziamo. Combattiamo. Eppure, se ci sforzassimo di usare l’empatia come chiave di comprensione della realtà che muta attorno a noi, avremmo meno paura.
Questo concetto l’ho trovato mirabilmente espresso da una persona intervistata qualche settimana fa da Piers Morgan su Good Morning Britain, programma dal quale il giornalista è stato più tardi cacciato per aver reagito in modo troppo rozzo all’intervista di Meghan Markle. Il tema dell’intervista (che posto qui: https://www.youtube.com/watch?v=S1pW6r9kjiw&t=23s ), tuttavia, non aveva a che fare con la famiglia reale britannica, ma con la scelta, operata dall’intervistata e dai suoi due partner, di crescere i loro due bambini in modo “gender neutral”. In parole povere, si tratta di non legare il genere sessuale anatomico all’identità e alla personalità dei bambini.
La persona intervistata ha dato ai figli dei nomi che non li connotano sessualmente, e si rivolge a loro evitando di usare i pronomi lei o lui ed usando il voi, come si faceva in certe epoche passate. Secondo lei, i bambini devono vivere in un mondo non connotato sessualmente fino a che essi o esse non raggiungono l’età nella quale cominciano spontaneamente ad interrogarsi su questi temi: a quel punto, devono essere lasciati liberi di scegliere a quale identità di genere appartenere, se ad una delle due, o ad entrambe, indipendentemente dalla condizione anatomica di partenza. Il fatto che Morgan sia molto aggressivo con la persona intervistata, e che quest’ultima si esprima al contrario in maniera perfettamente civile, calma e comprensibile, mi ha fatto istintivamente propendere per lei.
Morgan si richiamava al buon senso. Cioè, alle nostre consuetudini. Alle nostre sicurezze. Una creatura che nasce con un pene è un maschio. Una creatura che nasce con una vagina, è una femmina. Morgan è tanto moderno e generoso che concede loro il diritto di scegliere di assumere una diversa identità di genere, se lo desiderano. Ma ciò deve necessariamente avvenire in modo consapevole e doloroso, in un confronto dialettico con la Società, con “lacrime e sangue” insomma, poiché essi devono implicitamente assumersi la responsabilità di abbandonare un’identità predefinita dalla Natura. Si tratta ovviamente di una forzatura culturale: la Natura ti ha dato un pene. Tu sei dunque un Uomo. Se decidi di diventare una Donna, non potrai che farlo soffrendo psicologicamente la decisione.
Ma la Natura, fra le sue tante caratteristiche, non annovera quella di avere una posizione etica o morale.
La Natura non aggancia alcuna identità di genere al pene o alla vagina. Siamo noi che leghiamo l’identità e la psicologia delle persone a questi dettagli anatomici. Ed, a pensarci bene, all’alba del ventunesimo secolo, pene e vagina sono le ultime caratteristiche anatomiche alle quali la nostra Società lega ufficialmente un qualsiasi significato psicologico. Per quanto si possa essere razzisti, la Società non lega più ufficialmente il pigmento della pelle al dover essere delle persone. Non si pensa più che una persona dall’aria sinistra e con la gobba sia un serial killer. Non si afferma più ufficialmente che una persona di statura particolarmente bassa sia probabilmente megalomane, o che le belle donne bionde siano stupide.
E tuttavia, se uno ha un pene, egli ha di base una identità maschile. Se ha una vagina, ha una identità femminile.
Indubbiamente, ad una prima istintiva valutazione, ho avuto difficoltà a “mettermi nei panni” della persona intervistata. E tuttavia, è solo così che il mondo può veramente cambiare. Il mondo cambia se ne cambiano i presupposti culturali più radicati e profondi. E non esiste presupposto più radicato e profondo di quello che alberga in noi stessi.
Non bisogna avere paura di questi cambiamenti, anche se si avverte istintivamente che si tratta di cambiamenti che ci mettono personalmente in discussione. Non bisogna resistere, nel tentativo di arginare il mondo che sembra scivolarci fra le dita. Bisogna lasciarsi andare, respirare a fondo, ed aggrapparsi alla certezza che il nostro cuore è un muscolo elastico: esso è capace di allargarsi abbastanza per contenere l’empatia necessaria per mettersi nei panni di tutti. Naturalmente, non è affatto detto che il cambiamento sia sempre meglio di ciò che c’era prima. Ma questo, è tutto un altro discorso.
Tonnara di passanti.
Il 10 giugno del 1974, Pier Paolo Pasolini pubblicò sul Corriere della Sera un articolo, che troverete nella raccolta Scritti Corsari, dal titolo “Gli italiani non sono più quelli” (in Scritti Corsari, si intitola “Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia”).
Nell’articolo, Pasolini ragionava intorno alla vittoria del No al referendum sul divorzio, del 12 maggio di quello stesso anno, per concludere che tanto la Democrazia Cristiana quanto il Partito Comunista, uscito apparentemente vincente dal risultato, avessero in realtà entrambi abbondantemente perso. Perso nella loro capacità di comprendere gli italiani.
Egli sostenne, in quello come in altri articoli sul tema, che “i ceti medi sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali, ma sono i valori (ancora vissuto solo esistenzialmente e non nominati) dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. E’ stato lo stesso Potere – attraverso lo “sviluppo” della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a creare tali valori (…)”
Secondo Pasolini, L’Italia aveva votato No alla legge abrogativa del divorzio non perché fosse socialmente progredita, ma perché era ormai sedotta da un atteggiamento edonistico che le faceva considerare con fastidio l’idea di assumersi un impegno a vita. Ancora Pasolini: “L’omologazione culturale che ne è derivata (dall’esplosione del consumismo ndr.) riguarda tutti (…). Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista ed un qualsiasi cittadino italiano antifascista.”
Dire queste cose nel 1974, nel bel mezzo degli Anni di Piombo, dovette apparire come estremamente eretico. Pasolini non era l’unico intellettuale italiano del suo tempo ad aver avvertito la immensa forza psicologica dell’“American way of life” e la sua capacità di penetrazione nella società italiana, e occidentale in generale. La letteratura (ad esempio Bianciardi con La Vita Agra) e, soprattutto il cinema, praticamente tutto il meglio della commedia all’italiana, avevano ormai da molto tempo, sin dai primissimi anni Sessanta, identificato il nocciolo del problema. Ma Pasolini aveva definito politicamente, in modo preciso, il percorso verso il quale l’Italia era destinata.
A quasi cinquant’anni di distanza da quell’articolo gli italiani (e gli occidentali) fra gli otto, dieci anni ed i novanta, di ogni condizione sociale, sono quasi perfettamente identici. Ciò che li rende identici sono i loro consumi, e le loro aspirazioni a consumare ciò che viene prodotto per loro, finendo per essere vissuto da loro come essenziale. Non c’è quasi differenza apprezzabile fra un ragazzo di venticinque anni ed un uomo di cinquantacinque. Hanno lo stesso smartphone. Frequentano gli stessi social. Vestono, tranne che per piccoli particolari, nello stesso modo. Guardano più o meno le stesse cose sulle piattaforme.
Nella omologazione culturale di massa la tecnologia ha avuto un ruolo cruciale, e non solo negli ultimi trent’anni, con l’avvento di Internet, ma sin dai primi anni del Novecento. Ma senza il marketing la tecnologia sarebbe rimasta essenzialmente un’esperienza da nerd. La dimostrazione di quanto Pasolini avesse ragione sull’aspirazione al disimpegno, all’estetica, alla joie de vivre del cittadino occidentale medio è l’immenso successo di Apple, che per prima si rese conto che, per massificare la tecnologia, essa andava resa non più potente e performante, ma semplicemente più sexy.
In uno dei suoi memorabili monologhi, nel presentare i Golden Globes dell’anno scorso, Ricky Gervais ha pregato le star di Hollywood di astenersi dal fare discorsi di ringraziamento “politici”, non avendone essi secondo lui alcun titolo. “Quest’anno Apple è entrata alla grande nel mondo della televisione, producendo The Morning Show, una serie eccezionale sulla dignità e sul “fare la cosa giusta”, prodotta da un’azienda che sfrutta i lavoratori in Cina (…) Beh, voi dite che siete woke, ma le aziende per le quali lavorate… incredibile… Apple, Amazon, Disney…se l’Isis creasse un servizio streaming, voi chiamereste il vostro agente!” (mia traduzione). Per la cronaca, Tim Cook era presente in sala, così come i rappresentanti delle altre aziende citate.
Perché Gervais può dire queste cose in mondovisione, in faccia alle persone che insulta, ottenendone in cambio un grande applauso? Perché esse sono perfettamente vere. E non importa nulla a nessuno che lo siano: ne siamo tutti consapevoli. Noi tutti vogliamo i prodotti perché ci sono presentati come seducenti e, sostanzialmente, non ha alcuna importanza per noi il modo in cui essi ci vengono procurati.
In questo senso, proprio come aveva sostenuto Pasolini, non c’è oggi alcuna differenza fra un fascista e un comunista, fra un razzista e un antirazzista, fra un uomo e una donna, fra un bianco e un nero, fra un bambino e un adulto: siamo tutti, semplicemente, consumatori. Si tratta oggi di un’ovvietà, sia pure non sufficientemente ribadita, e soprattutto, non considerata appieno nelle sue conseguenze.
Cosa significa, infatti, essere tutti consumatori? Per prima cosa significa che non siamo più tutti cittadini. Abbiamo cioè smarrito la consapevolezza di avere dei diritti e dei doveri politici, prima che dei diritti socioeconomici, ed un obbligo politico verso i nostri discendenti. Il discorso pubblico attorno alla direzione che la nostra città, o il nostro Paese, o il nostro pianeta dovrebbe prendere nel lungo periodo è psicologicamente subalterno al soddisfacimento dei nostri desideri nel breve periodo.
Non siamo in grado di progettare perché non siamo in grado di superare il desiderio immediato di consumare. Quella insofferenza nei confronti dell’impegno che Pasolini identificava come la prima e principale causa della vittoria del No al Referendum del ’74 è la stessa insofferenza che ci impedisce di prendere sul serio i problemi ambientali del pianeta, e di agire di conseguenza, come collettività. Non esiste alcun progetto, di nessun tipo, che non proceda per tappe, il che contrasta violentemente con la voracità del nostro consumismo psicologico.
I limiti che ci sono stati imposti dalla pandemia sono stati vissuti dalla maggior parte di noi come fortemente invalidanti. Al di là delle discordanti opinioni intorno alla loro opportunità nella specifica occasione, ed ovviamente al di là dei loro effetti sul Lavoro, questo atteggiamento di generale fastidio dice molto della nostra Società. Molti di noi chiamano Libertà quella che, in fondo è, psicologicamente, semplicemente Insofferenza ai limiti, quale che sia il motivo per cui essi ci vengano imposti.
La difficoltà di accettare i limiti imposti dalla realtà è particolarmente evidente nei giovani di questa generazione. Non c’è genitore che non guardi con preoccupazione alla difficoltà crescente con la quale si cerca di imporre loro dei limiti all’uso dei social, o dei videogiochi, o delle droghe. Naturalmente, è la nostra mancanza di limiti che determina quella nei giovani.
Ogni volta che, senza che un oggetto di consumo si sia rotto, noi adulti ne compriamo un modello più recente, dimostriamo, nei fatti e nei comportamenti, e non nelle belle parole, ai giovani che, nella nostra società, la bulimia è consentita, ed anzi esaltata. La scomparsa dei “riparatori”, dei rammendi, dell’uso di accomodare gli oggetti nel nostro quotidiano è la rappresentazione plastica della nostra incapacità, come adulti, di porci dei limiti. Il successo di piattaforme di streaming che propongono centinaia di film e serie che nessuno di noi avrà mai tempo di vedere, e che ci mettono ogni sera, in particolare in epoca di pandemia e di coprifuoco, di fronte ad una scelta tanto vasta quanto assurda (lo dico da addetto ai lavori e, nel mio piccolo, da “contributore” del sistema) è una conferma quotidiana della nostra nevrosi bulimica. Gli esempi delle nostre contraddizioni agli occhi dei giovani, che non sanno verbalizzarle ma che le assumono psicologicamente, e che dunque che non possono difendersene, sono infiniti. Appunto, senza limiti.
Nessuno di noi è in grado, nell’ambiente in cui viviamo, di adottare, rispetto ad esso, comportamenti ascetici. Certamente non lo sono io. L’ambiente è ovviamente più forte del singolo. Ma è fin troppo evidente che la nevrosi sistemica della quale ognuno di noi è vittima produce conseguenze dannose sulla psiche dei giovani. La migliore definizione di Realtà che mi viene in mente, infatti, è quella di “dominio dei limiti”. Dei propri, innanzitutto.
I giovani hanno bisogno di conoscere sé stessi, e la conoscenza di sé stessi avviene nel confronto con i limiti: l’assenza della percezione di essi comporta l’alta probabilità di precipitare in un delirio d’onnipotenza, accoppiato ad una violenta nevrosi di scacco, quando il confronto diventa inevitabile, ed al fallimento. L’alternanza fra sensazione di onnipotenza e fallimento crea una gioventù nella quale i disturbi schizo-affettivi sono immensamente più frequenti di quanto non fossero in passato.
La tonnara di passanti del titolo si riferisce dunque ai giovani ed ai giovanissimi. Sono loro i passanti che, con la nostra adesione ormai completa ed introiettata al conformismo consumistico del quale parlava Pasolini, noi “uccidiamo”. L’assioma secondo il quale bisogna “uccidere” il Padre per poter crescere è oggi rovesciato: il Padre “uccide” i Figli per poter continuare a cullarsi nell’illusione di un Tempo infinitamente protratto, nel quale il suo Desiderio possa essere infinitamente soddisfatto. Il trucco nel quale il “Potere” è riuscito meglio è stato quello di liberarci dalla consapevolezza dell’esistenza della Morte, cioè del Tempo.
Se solo saremo in grado di permetterci un’adeguata plastica facciale, noi non moriremo mai, ma cristallizzeremo la nostra vita in un eterno Presente, nel quale rifletterci all’infinito, come nello specchio d’acqua di Narciso.
Draghi. Il Politico.
E così si farà il governo Draghi. A giudicare dall’aria che si respira, si tratta di un governo che gode, in partenza, dell’approvazione di una maggioranza ampia di elettori. Se cerco di mettermi nei loro panni, la ragione di tanto sostegno popolare (Salvini è stato applaudito in un supermercato Conad di Firenze perché ha detto che lo sosterrà) è, a mio avviso, ovvia.
Le statistiche dicono che, quando si alzerà il velo che ha congelato il mondo del lavoro in quest’ultimo anno, i nuovi disoccupati saranno fra i 350.000 ed i 500.000. I pessimisti (come me) pensano che saranno molti di più. La cifra non tiene poi conto di tutti quelli le cui piccole e medie imprese saranno fallite. E’ plausibile, visto che ciascun disoccupato/imprenditore che ha chiuso ha mediamente una famiglia, che le persone in forte crisi (crisi di sussistenza) saranno alcuni milioni. Ancora, in un Paese che si regge sul nero, non sappiamo poi quanta altra gente avrà seri problemi di sussistenza a causa di questa immensa crisi. Semplicemente, gli elettori non ritengono che le forze politiche in Parlamento siano, da sole, in grado di fronteggiare una crisi epocale di queste dimensioni.
La percezione comune è che, al di là dei propri meriti e demeriti personali, Mario Draghi goda del prestigio, della capacità e dei contatti necessari per provare, almeno, ad evitare la catastrofe. Tutto il resto, compresa la pandemia, è secondario rispetto all’esigenza assoluta di porre un freno immediato alla deriva violentissima dell’economia reale.
Cosa implica l’arrivo di uno come Mario Draghi alla guida di un governo? Cominciamo col dire che questo non sarà un governo “lacrime e sangue” alla Monti. Non vedo perché dovrebbe esserlo. Monti arrivò sull’onda di una crisi del debito. Draghi arriva per spendere duecento-nove miliardi di Euro. Monti doveva chiudere. Draghi deve aprire. Personalmente mi aspetto anzi che, nel breve periodo, Draghi metterà in campo nuovi ammortizzatori sociali. Questo non significa che il suo sarà un governo particolarmente progressista, né che l’ammortizzazione sociale lo segnerà fortemente. Semplicemente, la mia impressione, se volete la mia speranza, è che in una prima fase, Draghi butterà molta acqua sul tanto fuoco che sta per manifestarsi.
E poi? Cosa altro implica? Molti, in questi giorni, si sono concentrati sul passato di Draghi, chi per metterci sull’avviso rispetto al suo DNA di alfiere internazionale della grande finanza e dell’euroligarchia (Yanis Varoufakis fra tutti: https://www.newstatesman.com/politics/economy/2021/02/europe-isn-t-working). Il discorso intorno alla figura ed al carro al quale è attaccato il professore, tuttavia, non mi appassiona. Do per scontato che uno con il suo curriculum professionale abbia anche una forma mentis ed un’agenda politica che certo non esalterà i fautori del socialismo.
D’altra parte, non sono fra coloro i quali leggono in ogni mossa di Draghi un’azione a sostegno degli oscuri interessi delle élite della finanza mondiale. Per come la vedo io, Draghi ha sempre fatto nel modo migliore possibile, talvolta nell’unico modo possibile, il lavoro che, di volta in volta, gli è stato affidato dal proprio datore di lavoro: lo Stato italiano, Goldman Sachs, la Bce.
E certo che, spesso, queste azioni sono state più positive per le élite finanziarie di quanto non lo siano state per le popolazioni. Ma questo è determinato dal Sistema nel quale viviamo: non dalla cattiveria o dalla disonestà personale di Draghi. Sarà meglio ricordarci tutti del fatto che viviamo in un mondo capitalistico, nel quale la finanza ha sostituito, negli interessi delle élite, l’economia reale. Le grandi aziende investono i loro profitti nell’acquisto delle loro stesse azioni, allo scopo di aumentarne il valore. E’ così che moltiplicano i guadagni, pur licenziando i dipendenti e riducendo la produzione.
Ma, per quanto mi renda conto che ciò sia opinabile, ritengo che la famosa “salvezza” dell’Eurozona grazie all’altrettanto famoso “whatever it takes”, sia stata soprattutto un bene per le popolazioni europee. Quelli che dicono che il quantitative easing ha salvato le banche dimenticano che le banche sono piene dei soldi dei risparmiatori.
L’arrivo di Draghi apre però due questioni politiche. La prima è il famoso dibattito sui “competenti” in Politica, il secondo quello dello “sdoganamento” della Lega come forza credibile e affidabile agli occhi dell’Europa e del resto del mondo.
E’ noto che la nostra classe politica, ma direi più o meno la classe politica occidentale in generale, soffre da molti anni di una cronica insufficienza nel proprio processo di selezione. Nel nostro Paese, questa mancanza ha cominciato a manifestarsi con il berlusconismo. Forse c’è persino un momento preciso nel quale quel mondo è improvvisamente cambiato: il faccia a faccia televisivo fra Berlusconi e Occhetto, officiato da Mentana, nel 1994. La famosa storia della giacca marrone del segretario dei “post comunisti”.
Il povero Akel avrebbe anche potuto essere Churchill: in quell’istante fu chiaro a tutti che la politica come dibattito di idee (forse anche perché in quel caso le idee non erano stupefacenti, sebbene migliori di quelle suggerite da Berlusconi) era finita, e che cominciava quella dello spettacolo. Un altro divo del palcoscenico come il primo Bossi trascinò con sé e con i suoi celti di Brembate quello che restava della politica delle idee.
La tendenza è andata crescendo negli anni, esplodendo definitivamente con i social network. La brevità dei messaggi favorisce la creazione di slogan a getto continuo. La sensazione di essere tutti sullo stesso piano demolisce l’aura di rispettosa distanza della quale una volta i politici erano circondati. Oggi un discorso come quello sulle “convergenze parallele” non potrebbe nemmeno essere concepito da un politico: figurarsi se possa essere pronunciato. I politici non vanno più nemmeno a caccia di sondaggi, ma di Like su Facebook. Figli, in questo senso, del berlusconismo e del primo leghismo, i 5 Stelle sono poi venuti a completare la distruzione dell’idea per la quale uno che fa politica debba avere delle competenze.
Ma quali competenze? Il discorso sui competenti ha preso una deriva sciocca ed elitista. Io ho bisogno di un competente per rifarmi i denti, non per decidere se debba o meno fare parte dell’Eurozona. Per questa seconda scelta ho bisogno di cultura, non di competenza.
Le competenze delle quali ha bisogno la politica sono competenze culturali, non disciplinari. Farebbe bene un politico a conoscere la Storia. La Filosofia e la Filosofia Politica. L’Economia. Le Arti, tutte. La Matematica, intesa nel suo senso filosofico. Il politico non ha alcun bisogno di conoscere i dettagli delle singole discipline: per quelli ci sono, appunto, i competenti. I tecnici. Il politico deve avere un progetto politico, non un progetto manageriale.
La differenza è molto semplice: il politico è un visionario. Uno, o una, che abbia un punto di vista complessivo, non specialistico ma generale, della società e di dove pensi di condurla. Se Draghi sia in questo senso un tecnico o un politico lo scopriremo fra poco: di certo alimenta il sospetto di avere almeno una vaga idea di chi fosse Shakespeare.
La cultura non la si ottiene solo grazie ad un percorso standard, fatto di scuola e università. E un patrimonio a disposizione di tutti. In questo senso, il più democratico che esista. Ma non averla, e non cercarla, non è sinonimo di democraticità. E’ sinonimo di superficialità. Non c’è niente di democratico in un politico che non sappia mettere due parole in fila. E questo non ha nulla a che fare con i “competenti” in politica.
Negli ultimi trent’anni i partiti politici hanno, per mille motivi, svillaneggiato non la competenza, ma la cultura, portando in Parlamento gente che non sa nulla di nulla, non gente incompetente in questa o quella materia specifica.
C’è poi la questione della Lega. La Lega è più vecchio partito in Parlamento. Ha cambiato anima diverse volte. Da secessionista è diventata nazionalista. Da pagana è diventata cattolicissima (ricordate il Sacro Cuore di Maria?). Da antieuropeista è diventata, pare, convintamente europeista. Ovviamente non ha mai cambiato nulla.
Essa rappresenta e rappresentava quella parte della cittadinanza che si riconosce in un piglio pragmatista, che bada al “buon senso”, che difende i propri interessi con le unghie e con i denti, anche quando i propri interessi sono contrari al “buon senso”, che a parole detesta la corruzione, finché non ha personalmente l’occasione che rende l’uomo ladro. Allora, si media, si fanno i distinguo. Ironicamente, se c’è un partito che rappresenta perfettamente i vizi dell’italiano dell’icona romana per eccellenza, Alberto Sordi, quel partito è la Lega.
Ora, si dà il caso (ma appunto, non è un caso, ma la naturale conseguenza della sua essenza “sordiana”) che la Lega sia, nei sondaggi, primo partito in Italia. E’ chiaro che, se si andasse a votare, la Lega vincerebbe le elezioni. Ma rimarrebbe, nel suo DNA, quel sovranismo del quale è portatrice, quel germe potenzialmente disgregatore dell’Unione Europea. Un governo di centro destra, con la Lega e Fratelli d’Italia a tirare, è un governo che l’Europa non accetterà mai. La UE non può permettersi un’altra Brexit.
Perché, al di là delle convenienze economiche delle élite finanziarie, la UE esiste per un unico, e sacrosanto motivo: per regolare senza spargimenti di sangue, e dopo due guerre mondiali, la millenaria questione della supremazia sul continente, contesa da mondo germanofono e mondo francofono all’interno di un’alleanza cementata dagli interessi economici. Questo è ciò che i detrattori della UE non capiscono: l’Unione Europea non esiste per preservarci dai pericoli esterni, o per permettere ai suoi oligarghi di prosperare. E’ nata ed esiste per proteggerci da noi stessi e dalla nostra Storia.
Per inciso, non credo che la Lega promuoverebbe mai sul serio un’Italexit. Così come i personaggi di Sordi non si sarebbero mai affrancati da quel sistema che essi condannavano ogni cinque minuti, ma che dava loro da mangiare. Purtroppo, questo gli altri europei non potranno mai capirlo fino in fondo.
La UE sa che non è più possibile rimandare l’appuntamento con Salvini: gli elettori italiani non vedono l’ora di votarlo. E allora, sembra abbastanza chiaro che lo scopo più prettamente politico del governo Draghi è quello di fare da balia ad un futuro governo Salvini, mondato del proprio peccato originale grazie ad un periodo di quarantena sotto la sua guida.
Dunque, non potendo più far nulla per evitarlo, la UE “aiuta” Salvini ad entrare lavandosi per bene le mani, facendogli scuola, prima di affidargli la guida della seconda economia manifatturiera d’Europa. Questa è, a mio avviso, la funzione storica del Governo Draghi, dal punto di vista politico. Ancora una volta, Draghi farà il lavoro per il quale viene assunto.
In questo gioco, il PD conserverà il posto che si è guadagnato in questi anni. Cioè quello di una forza secondaria che non riesce a fare un salto di qualità, ma che non riesce a morire grazie alla persistenza in Italia di una significativa minoranza di (centro) sinistra. I 5 Stelle, al contrario, rischiano l’estinzione. Non saranno “competenti”, ma i loro elettori non sono camaleontici come quelli leghisti. Forse Di Battista farà un suo partito di nostalgici, o si prenderà i transfughi del governo Draghi, quando egli (continuando a fare da garante a Salvini per qualche altro anno) sorveglierà il gioco dal Colle. Se tutto questo ha un senso, il governo Draghi sarà molto politico.
Forse il più politico da molti anni a questa parte.
I Soviet della Finanza
In questi ultimi giorni sono successe diverse cose interessanti, alcune delle quali possono significare molto più di quello che al momento sospettiamo. La crisi di governo in Italia è più interessante di quanto possa sembrare limitandosi ad ascoltare il chiacchiericcio dei talk show. Ma riguarderà solo noi italiani.
Le rivolte a favore di Naval’nyj e la loro repressione potrebbero avere conseguenze più estese, come ad esempio difficoltà ulteriori nei rapporti fra Russia e Germania con riguardo al North Stream 2, il gasdotto che trasporta il gas dalla Russia all’Europa attraverso il Baltico. Anche questa storia, però, riguarda un numero relativamente limitato di persone: gli europei.
Ma c’è un’altra storia, e che riguarda tutti. E tutti, in questo caso, significa tutti gli abitanti del pianeta. E’ quello che è accaduto al titolo di borsa della catena di negozi di video giochi, Game Stop (GME).
Nel parlarne, non cercherò di millantare conoscenze approfondite dei meccanismi della finanza, che non possiedo. Non ho mai giocato in Borsa in vita mia. Lo trovo anzi un mondo piuttosto noioso. Se volete approfondire i tecnicismi di quanto è accaduto ci sono molti articoli che vi aiuteranno a capire meglio. Qui ne allego tre: https://www.nytimes.com/2021/02/01/podcasts/the-daily/gamestop-stock-robinhood-reddit.html?searchResultPosition=1&showTranscript=1; https://www.bbc.com/news/av/technology-55864312; https://www.hdblog.it/games/articoli/n533001/assurda-storia-gamestop-community-reddit-fondi/?fbclid=IwAR3nUMZGoUGI9pd1OrN08V80BmhPeQadzuIKl4t6wO2prUKpXVsB0oA5PjI .
Per riassumere, l’affare Game Stop ha visto una contrapposizione netta, diciamo pure una guerra, fra i cosiddetti “little guys & gals”, la gente come me e voi, e gli investitori istituzionali, i famosi Hedge Funds, che gestiscono professionalmente miliardi di dollari. In questa guerra, per il momento, gli investitori istituzionali stanno perdendo anche se, nelle ultime ore la situazione si sta lentamente riequilibrando. Alcuni hanno già consolidato le perdite e sono andati a leccarsi le ferite mollando la contesa. Altri stanno cercando di resistere. Ma parliamo di perdite, e di guadagni, da una parte e dall’altra, miliardari.
Il modo in cui questi guadagni e queste perdite si sono realizzati, al netto dei tecnicismi, è in fondo quello consueto: tutto ciò che si fa in Borsa, alla fine, è comprare e vendere. Se compri a poco e vendi a tanto, guadagni. Se compri a tanto e vendi a poco, perdi. Per complicare lievemente il gioco e renderlo meno noioso, alcune di queste azioni di acquisto e di vendita possono essere realizzate su ipotesi di prezzi futuri, ed è questo il caso di Game Stop.
In pratica, quando si presume che un titolo perderà di valore, esiste la possibilità di farsene prestare le azioni vendendole al prezzo corrente e ricomprandole più avanti a quello più basso, guadagnando la differenza. Vendo un titolo, senza averlo materialmente, a 100, lo ricompro a 50, restituisco il titolo al prestatore e intasco i 50 di differenza, tolti i costi dell’operazione. Se non avete capito come sia possibile vendere ciò che non si possiede realmente, non ha importanza. E’ un’altra delle astratte costruzioni che compongono il nostro macro sistema economico, e che hanno tuttavia conseguenze reali sulla vita delle persone.
Scopo del gioco, in sostanza, resta comunque sempre quello: in Borsa non devi mai restare con il cerino in mano. In questo frangente, il cerino sembra rimasto nelle mani degli Hedge Funds.
Negli ultimi lustri, gli Hedge Funds hanno fatto pressione costante perché questa, ed altri generi di “scommesse” sull’andamento futuro dei prezzi di un titolo, di una divisa monetaria o di una commodity potessero essere il più possibile deregolamentate. I loro sforzi sono stati premiati da una deregulation sempre più massiccia, che si è tradotta in guadagni miliardari per loro ed in perdite altrettanto miliardarie per i piccoli risparmiatori.
Quando un fondo decide di puntare sul ribasso di un titolo, infatti, l’immenso investimento che ciò comporta spesso manda sul lastrico i piccoli risparmiatori e/o i dipendenti delle aziende coinvolte nell’operazione, ai quali magari è stato offerto di essere pagati in azioni, e che vedono così i propri risparmi volatilizzarsi in un tempo troppo breve perché essi possano proteggersi. Ciò è, ad esempio, quanto accadde ai dipendenti della Enron, i cui titoli persero il 99% del loro valore nel giro di pochissimi giorni, se non di ore.
Nel caso di GME è accaduto che, avendo i fondi deciso di puntare sul calo del suo valore, una massa di piccoli risparmiatori si sia accordata su di un social network per comprare titoli dell’azienda, impedendo al prezzo di calare, portandolo anzi molto in alto, e mettendo così gli investitori istituzionali (che avevano venduto a 100 con la previsione di ricomprare a 50 e si sono ritrovati obbligati potenzialmente a ricomprare al nuovo prezzo di 1500) in gravissima difficoltà.
Mentre il mondo della Finanza ha urlato allo scandalo, il resto del mondo ha comprensibilmente salutato tutta questa storia come la vendetta dei piccoli risparmiatori nei confronti dei grandi speculatori, alcuni dei quali stavolta si sono fatti molto male. Molti osservatori hanno immaginato che questo sia l’inizio di un’era in cui la gente comune, grazie ai social ed alle app per giocare in borsa, potrà difendere le aziende alle quali tiene contro le scommesse al ribasso dei grandi investitori. Un evento simile a quello di GME si è infatti verificato su scala minore con la catena di sale cinematografiche AMC, difesa dai piccoli risparmiatori.
E’ questa dunque la nascita di un mondo finanziariamente più equo? Siamo in presenza di una rivoluzione dal basso fatta da gente che, liberatasi del timore reverenziale nei confronti di sistemi complessi, decide di prendere in mano le sorti della grande finanza?
Per formarci un’opinione, vediamo quali sono i presupposti di quello che è accaduto.
Primo. Tutto questo non sarebbe stato mai possibile non solo senza Internet, ma ancor di più senza i Social. I piccoli risparmiatori sono tantissimi ma, in natura, agiscono ognuno per conto proprio. In assenza dei Social non sarebbe stato possibile coordinare un’azione come quella su GME. Ne consegue che il primo ed essenziale strumento di questa eventuale rivoluzione sono i Social Network.
E, tuttavia, sappiamo che i Social Network sono un’arma a doppio taglio. Mettono sì la gente in contatto ed in grado di coordinarsi ma, nel farlo, sono in grado di manipolarla in qualsiasi direzione. E lo fanno.
Nel mondo del commercio ed in quello della politica sappiamo ormai senza più alcun margine di dubbio che i Social sono stati e vengono tuttora usati massicciamente per manipolare l’opinione pubblica. Da politici locali. Da servizi segreti stranieri. Da imprenditori. Da chiunque abbia accesso ai dati che si accompagnano alla nostra adesione ed al nostro uso quotidiano dei Social. Da Brexit alle elezioni americane, dal sovranismo ai complottismi più impensabili, il veicolo di manipolazione delle persone è rappresentato dai metadati che viaggiano con i Social.
Secondo. In politica, la nascita di una rivoluzione appoggiata ad una rete digitale di comunicazione aperta a tutti è stata sperimentata da molti movimenti e partiti. A cominciare dal Movimento 5 Stelle, in Italia. Senza entrare nel merito di giudizi politici comunque soggettivi, si è visto come è andata a finire. Il Movimento 5 Stelle, che avrebbe dovuto “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno” e “liberarci dei vecchi partiti” governa oggi pressoché con chiunque si renda disponibile, di Destra o Sinistra che sia. Una forza mandata in Parlamento con uno straordinario patrimonio di voti, allo scopo di portare in Politica “la voce del Popolo” è oggi, secondo i sondaggi, realmente viva proprio grazie al Parlamento, più che al Popolo.
Terzo. Gli investitori istituzionali che scommettono sul ribasso di un titolo in genere lo fanno per ragioni legate alle prestazioni reali dell’azienda, o alle condizioni del mercato nel quale questa si muove. Game Stop vende videogiochi su supporti fisici in un mondo nel quale i nostri figli scaricano i videogiochi da Internet. E’ evidente che, al di là delle bizzarrie della finanza, il modello di business di Game Stop è destinato, prima o dopo, a diventare del tutto obsoleto.
Nel caso di Enron, per quanto i suoi dipendenti siano rimasti schiacciati dalla speculazione, fu proprio la speculazione a portare alla luce le gigantesche irregolarità in pancia ai conti dell’azienda, con conseguente beneficio del sistema nel suo complesso. Il titolo andava a gonfie vele perché i conti erano truccati. Non se ne accorsero i piccoli risparmiatori che investivano la pensione in Enron, né i responsabili politici. Se ne accorsero gli investitori istituzionali.
In sostanza, per quanto i grandi investitori non agiscano ovviamente a fini socialmente utili, la loro capacità di analisi del mercato permette di identificare per tempo tanto quelle aziende che si comportano illegalmente quanto quelle aziende che diventano obsolete. Se poi, come nel caso della crisi dei subprime, gli Stati non mettono in galera i manager disonesti, il problema è della politica, non degli investitori.
Cosa si può dedurre da tutto ciò?
Le mie personali deduzioni sono che siamo di fronte ad una nuova manifestazione della giustificata insoddisfazione generale nei confronti del Sistema che, in questa prima occasione, ha trovato un sollievo.
Per la prima volta i piccoli hanno messo in crisi i grandi sul terreno ad essi più familiare: la capacità di generare profitto. Il senso entusiasmante di rivincita nei confronti di banchieri e finanzieri che, sudati e disperati, vanno in tv a chiedere a gran voce che il sistema venga regolamentato dopo aver approfittato per decenni della sua deregolamentazione è immenso.
Tuttavia, sarebbe un errore vedere in questo l’inizio di una vera rivoluzione, così come è stato un errore leggere nei vari movimenti del populismo mondiale la risposta ai problemi sistemici della nostra Società e delle nostre Democrazie.
Il fatto è che noi abbiamo invertito il processo secondo il quale le vere rivoluzioni si compiono: non è che prima si metta insieme la gente e poi si cerchino le idee. Prima si dovrebbero trovare le idee, e sulla base di queste si dovrebbero mettere insieme le persone. Le piattaforme che connettono le masse non sono, di per sé, uno strumento rivoluzionario se le masse non hanno coscienza della strada che vogliono intraprendere. Che non può essere semplice sete di vendetta, ma una nuova prospettiva generale.
E’ dunque, purtroppo, abbastanza facile prevedere che questa nuova “rivoluzione”, iniziata per motivazioni condivisibili, la frustrazione dei piccoli risparmiatori traditi dal Sistema, verrà presto manipolata a causa della mancanza di un progetto reale. Presto i piccoli investitori cominceranno a commettere errori, o i grandi investitori cominceranno a manipolare i social, o entrambe le cose, in modo tale da riuscire a trarne vantaggio. Le nuove perdite si tradurranno in nuova sfiducia dei piccoli investitori nei confronti del Sistema, con un ulteriore scollamento fra Popolo ed Classe Dirigente.
La morale è: state lontani dai sistemi di trading on line e dai commentatori che salutano la vicenda GME come l’inizio di una Rivoluzione nel mondo della Finanza che ci farà tutti ricchi, uccidendo i grandi investitori e, se volete cambiare il Sistema non cercate di farlo attraverso i gadget digitali del Sistema.
Rischiate di rompervi l’osso del collo.
Adatti e Inadatti
Com’è noto, Charles Darwin scoprì che, in Natura, non sopravvive il più Forte, né il più Intelligente, né il più Crudele.
Sopravvive il più Adatto.
Quello, cioè, che si adatta meglio alle circostanze esterne. Quello più flessibile. Questa intuizione, che Darwin applicò alla Natura, in realtà si applica benissimo anche alla Società.
Fra gli uomini ci sono tre categorie di persone che sanno adattarsi alle circostanze. I Parassiti perché, per definizione, la loro sopravvivenza dipende dalla capacità di adattarsi agli “ospiti”. Gli Eroi, perché il loro eroismo nasce con, e dipende dalle circostanze esterne. Gli Artisti, perché appartengono ad una dimensione diversa da quella del quotidiano e non si interessano delle circostanze esterne se non in funzione della loro arte.
Parassiti, Eroi e Artisti ci saranno sempre, e sempre si scambieranno i ruoli. Pensate, per esempio, alla coppia Sordi-Gassman ne “La Grande Guerra”: è la storia di due Parassiti che diventano Eroi. Forse il loro eroismo era già implicito nel loro parassitismo: essi si adattavano ad una guerra che non capivano ed alla quale erano totalmente estranei. A pensarci bene, il loro cercare di sopravvivere in quella follia, ha già in sé qualcosa di eroico.
Pensate a quanti grandi Artisti hanno vissuto da Parassiti. Per un grande artista le preoccupazioni del quotidiano, dalla gestione della vita pratica alla propria sopravvivenza, pur essendo una dimensione necessaria sono, in fondo, psicologicamente irrilevanti. Per loro, la realtà non è infatti quella del quotidiano, ma quella che vi sottende. Una realtà più profonda, più insondabile, meno leggibile, ma ad essi chiarissima.
Gli artisti spesso collocano la propria moralità su di un piano diverso da quello degli altri uomini proprio perché avvertono che il comune senso morale poggia su basi in fondo superficiali. Consuetudini… tradizioni… pregiudizi. E’ eticamente accettabile ciò che permette loro di cogliere ciò che sta sotto alla realtà quotidiana, ciò che essa nasconde, e di esprimere la loro arte, al di là di quello che la Società considera eticamente accettabile per il resto del mondo.
La storia dell’arte è piena di gente che campa sulle spalle degli altri. Quella del Cinema, in particolare, abbonda di leggende picaresche sul modo in cui i grandi della Settima Arte abbiano succhiato il sangue, in senso economico o emotivo, o entrambe le cose, di chiunque avesse avuto la disgrazia di avvicinarli.
Rossellini si faceva prestare i soldi per i suoi film da chiunque. Una volta il suo macellaio gli prestò un milione. Il film non incassò e Rossellini non rimborsò il debito. In compenso, riuscì, incontrando per caso il macellaio sull’espresso Roma Milano, ad usare le ore di viaggio per convincere il poveretto a prestargli un altro milione. Credo che a nessuno venga in mente di considerare per questo Rossellini un uomo disonesto. E sono certo che egli non si considerasse tale. Disonesto si sarebbe considerato se, anziché fare “Paisà”, avesse usato quel denaro per fare un film qualsiasi.
L’Eroe. Qualche giorno fa un collega mi ha fatto una domanda sulla mancanza di aspirazioni di un personaggio. Mi è venuto istintivo di pensare all’eroe occidentale per antonomasia: Ulisse. Senza la Guerra di Troia, la circostanza che cambiò la sua vita, che eroe sarebbe stato Ulisse? Un re ricoperto di pelle di pecora, sovrano di qualche centinaio di pecorai come lui, confinati su di un’isoletta piena di pecore e olive. Senza le circostanze esterne, Odisseo non sarebbe mai esistito. Le sue aspirazioni originarie, che probabilmente si limitavano ad aumentare il numero delle pecore e delle olive, non ebbero alcuna relazione con la grandezza del suo personaggio, una volta messo di fronte alla necessità di combattere a Troia, per poi trovare il modo di tornarsene a casa sua, nonostante la stizzosa opposizione degli dei. Il re furbissimo si adattò benissimo alle circostanze esterne.
Se anche nella Società vale l’assunto di Darwin, ne consegue che affinché le persone eticamente migliori prosperino, è necessario agire perché le circostanze esterne richiedano, per adattarvisi, di essere eticamente migliori.
Se un Parassita, un Eroe o un Artista vivono in un mondo violento, eticamente inaccettabile e dominato dall’oscurità, la loro naturale propensione ad adattarvisi perpetuerà quel mondo. L’Eroe potrà certo morire sul rogo, l’Artista potrà certo trovare il modo di concepire la propria opera indipendentemente dal dittatore di turno, il Parassita riuscirà comunque a trovare il modo migliore di cavarsela, sia pure se, per farlo, dovesse mandare al rogo l’Eroe e tenere l’Artista in una condizione di perpetua censura. Ma le loro azioni, per quanto nobili, o ignobili, saranno reazioni adeguate alla realtà esterna, in assonanza con essa. Non saranno azioni di rottura, di rivoluzione di essa.
Direi che sia per questo che Eroi e Artisti vengano spesso completamente riconosciuti dopo la loro morte. Le loro imprese appaiono ai coevi come necessarie o irrilevanti, un pò folli o eccessive, a seconda del vento, perché essi non possiedono l’istinto di adattamento alla realtà profonda che hanno loro. I coevi di questi perfetti adatti non capiscono la realtà alla quale devono adattarsi quanto la capiscono loro. Eroi, Artisti e Parassiti sanno istintivamente leggere le passioni oscure che agitano le società, cosa che il velo del quotidiano, che regola la vita di tutti noi, non permette di fare. Solo più tardi, i posteri si renderanno conto che il mondo che quelle persone leggevano non era che un prologo al loro Futuro.
Se la Rivoluzione è la rottura dell’Adattabilità, il vero Rivoluzionario, dunque, non può essere né un Parassita, né un Eroe, né un Artista. Egli deve essere una persona che non è in grado di adattarsi al mondo che lo circonda, perché ne coglie soltanto le ingiustizie o le brutture manifeste, ovvie, quotidiane. Il vero rivoluzionario deve essere costretto a cercare di cambiare il mondo nel quale abita, perché spintovi da una necessità interiore insopprimibile. Deve essere una persona destinata a soccombere, perché completamente inadatta, in senso darwiniano. Ma non deve essere un martire (nel senso dell’eroe) perché il suo martirio sarebbe solo la riconferma delle regole del mondo che egli, o ella, cerca di sovvertire. Il comune terrorista, per intenderci, non è che una pedina del mondo che combatte. Deve essere una persona che cerca disperatamente di adattarsi, senza riuscirci in alcun modo.
Il vero rivoluzionario ha dunque bisogno di essere povero, isolato, esiliato, umiliato, solo, inascoltato finché non scopre la sua reale vocazione. Non è una visione romantica questa. E’ una necessità. E, del resto, si tratta della condizione vissuta dalla maggior parte delle grandi figure rivoluzionarie del passato.
Ma, quando il vero Rivoluzionario, o la vera Rivoluzionaria, avranno finito il loro lavoro, il Parassita, l’Eroe e l’Artista dovranno trovare un nuovo modo di adattarsi. Se il Rivoluzionario avrà creato per loro un mondo migliore, queste tre piante umane, per loro natura, perpetueranno il mondo migliore, invece che quello peggiore.
Di questi tempi, i nostri poveri Eroi, i Parassiti e gli Artisti non aspettano altro che qualcuno si decida a ritenersi troppo inadatto alla Società per continuare a viverci. Purtroppo per noi tutti, la Società contemporanea, pur essendo in realtà una delle meno accoglienti che siano mai state concepite, eccelle nell’abilità di far sentire colpevoli gli esclusi, più che coloro i quali escludono. Ed, al di là della retorica, non è facile trovare qualcuno che, davvero, non trovi alcun modo per adattarsi all’aurea mediocritas nella quale tutti noi viviamo.
Ma il mondo non è un posto stabile, e la Speranza non muore mai. Sono sicuro che in questo preciso istante, da qualche parte, qualcuno si sente tanto disperatamente Inadatto da pensare di non avere altra scelta se non quella di creare un mondo migliore per chi è più Adatto.
Dio lo Vuole!
La foto dello “Sciamano”, al secolo Jacob Anthony Chansley, alla testa della folla che ha aggredito Capitol Hill nel giorno della conferma di Biden, è una delle immagini di quella giornata che, certamente, resteranno nella nostra memoria.
Ce ne sono però diverse altre, forse meno pittoresche ma che, ad uno sguardo più attento, sono altrettanto, se non più, interessanti. Quelle foto ci dicono che la folla di Capitol Hill era eterogenea e non necessariamente composta solo da personaggi da circo. Fra i manifestanti, ad esempio, sono stati fotografati Klete Keller, due volte medaglia d’oro di nuoto alle Olimpiadi; l’ex tenente colonnello dell’aeronautica militare Larry Brock; il deputato dell’assemblea legislativa della West Virginia, Derrick Evans; Aaron Mostovsky, figlio di un giudice della Corte Suprema di Brooklyn; Nicholas Ochs, leader del Capitolo hawaiano dell’organizzazione suprematista Proud Boys (quella che Trump invitò a “Stand back, and standby”, nel primo faccia a faccia con Biden); Bradley Rukstales, l’amministratore delegato di una società di marketing di Chicago …
E poi c’è una foto sulla quale conviene soffermarsi. E’ quella del Senatore repubblicano Josh Hawley che, entrando nell’edificio per andare a votare, saluta i manifestanti con il pugno alzato, a mò di incoraggiamento.
Il Senatore è oggetto di un articolo del New York Times, Opinion | The Roots of Josh Hawley’s Rage – The New York Times (nytimes.com) sul quale un vecchio amico che da molti anni vive a Washington ha attirato la mia attenzione. L’autrice dell’articolo, Katharine Stewart, si occupa da un decennio di un tema a me fino a poco tempo fa praticamente sconosciuto, se non per le sue manifestazioni folcloristiche, ma molto interessante: il fondamentalismo cristiano negli Stati Uniti. Giusto per inquadrare il personaggio, nel suo articolo Stewart spiega che il Senatore Hawley è convinto che tutti i nostri problemi nascano dalle considerazioni di un monaco nato in Britannia nel 360 d.C., Pelagio.
Cosa ha detto di tanto terribile Fra Pelagio? Che la grazia divina illumina coloro i quali vivono rettamente la loro vita, non coloro i quali seguono ciecamente la dottrina. Per Pelagio, la grazia viene dalle opere, che sono figlie del discernimento fra Bene e Male, non dall’obbedienza. Nella Lettera a Demetriade, difendendo il concetto di libero arbitrio, Pelagio scrive: “Nell’essere capace di distinguere la duplice via del bene e del male, nella libertà di scegliere l’una o l’altra sta il suo (dell’Uomo) vanto di essere razionale. Non vi sarebbe alcun merito nel perseverare nel bene, se egli non avesse anche la possibilità di compiere il male. Per cui è un bene che possiamo commettere anche il male; perché ciò rende più bella la scelta di fare il bene.”
Il Senatore Hawley ritiene tuttavia che il fatto che le democrazie moderne permettano agli uomini di decidere, con il proprio cuore e con la propria razionalità, e nel perimetro dello Stato di Diritto, cosa sia il Bene e cosa sia il Male, sia il principio di tutto il Disordine del nostro mondo. Poiché, a suo modo di vedere, essi dovrebbero limitarsi a seguire la dottrina e le leggi indicate loro da un gruppo di fedeli cristiani, che darebbero loro regole discendenti direttamente dalla parola di Dio. O, come dice lui, di Gesù Cristo.
Il Senatore Hawley si trova al Senato grazie ai potenti gruppi di cristiani fondamentalisti che ce lo hanno mandato, ed è lì, coerentemente con le proprie idee, per permeare la politica americana del messaggio di questi gruppi. I quali hanno da tempo adottato una strategia vincente di penetrazione culturale della società, che si basa sul proselitismo instancabile e sui dubbi etici che, talvolta la democrazia e lo Stato di Diritto, possono sollevare nelle persone.
Ma cosa ha a che fare tutto questo con Trump? Perché Hawley sostiene i manifestanti di Capitol Hill, e perché ha seguito il Presidente nella sua accusa che le elezioni fossero state funestate da seri brogli? Secondo un exit poll sul voto americano condotta da Edison Research (Election Polling Services – Edison Research), il 28% degli intervistati si è dichiarato “White evangelical or white born-again Christian”. Di questi, il 76% ha votato per Donald Trump.
In tutto ciò, occorre notare, la parola “white” è cruciale.
Dopo aver letto l’articolo della Stewart, e visto un video di Frank Schaeffer, un regista e scrittore americano che, avendo conosciuto in gioventù il fondamentalismo cristiano se ne è poi allontanato, video nel quale egli sostiene che esiste una lobby fondamentalista che vorrebbe trasformare la democrazia americana in una teocrazia, ho cercato di informarmi di più su questo mondo.
Se molti forum di organizzazioni cattoliche, come la COR, Catholic Organisation for Renewal, condannano fermamente le vicende del 6 gennaio, da sempre esiste in America un gran numero di organizzazioni fondamentaliste che condizionano la politica e la società americana. Dagli anni Cinquanta in poi, molte di queste si sono allontanate dal tradizionale impegno nell’istruzione e nelle opere caritatevoli, per dedicarsi in modo strutturato all’attivismo politico.
I loro sforzi in questo campo non si limitano oggi a fare campagna per opporsi alle evoluzioni della società contemporanea in tema di libertà sessuale, di aborto o parità di genere. Queste cose formano da sempre l’oggetto delle preoccupazioni e del dibattito di tutti i fedeli, a qualsiasi confessione religiosa essi appartengano e, pur avendo la potenzialità di scardinare i principii della democrazia liberale, non sono i temi, da soli, a rappresentare un pericolo.
Le organizzazioni americane del fondamentalismo cristiano ritengono essenziale che i loro principii dottrinari e valori vengano tradotti nel comportamento generale dei cittadini, in ogni ambito della vita pubblica e privata. A questo scopo, hanno adottato una strategia di penetrazione culturale e di lobbying politica estremamente serrata. Tali principii e valori si identificano sostanzialmente con quelli portati dai protestanti inglesi a bordo della Mayflower: puritanesimo bianco, creazionista e sciovinista.
Il suprematismo bianco, il sovranismo e la identificazione della Nazione con una Fede, vanno a braccetto. Quando Trump usava la famosa frase “Make America Great Again” (MAGA), è alla restaurazione di tali valori che, molti di questi fondamentalisti, pensavano che il Presidente si riferisse.
Un’America Cristiana, Bianca, Potente.
Il bello di uno slogan come MAGA è che, in teoria, può richiamarsi a qualsiasi valore fondante della società americana, compresi quelli Liberal. E’ per questo che tantissimi operai disoccupati, ad esempio, hanno creduto che parlasse a loro ed al tentativo di riportare l’Industria americana agli antichi splendori, proteggendola dall’attivismo economico cinese.
Nel 2019 una ricerca condotta da Opendemocracy ha evidenziato come, sull’onda lunga della vittoria di Trump, alcune organizzazioni del fondamentalismo cristiano americano abbiano cominciato a finanziare movimenti d’opinione e strutture europee, con l’idea di combattere una battaglia in “prima linea sul fronte culturale”.
Nel corso di pochi anni, sostiene Opendemocracy, questi finanziamenti sono arrivati alla cifra di 50 milioni di dollari, anche se vi sono indizi del fatto che il denaro arrivato in Europa sia molto di più. La ricerca ha tanto preoccupato il Parlamento Europeo che quaranta dei suoi membri hanno chiesto a Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione Europea, di indagare sul fenomeno. I paesi europei coinvolti in questo flusso di denaro sono diversi, e l’Italia è uno di questi. Forse non è dunque un caso se, prima che la pandemia catturasse l’attenzione di tutti, avesse avuto inizio, anche da noi, un certo revival delle posizioni cattoliche più conservatrici.
Tutti ricordiamo, ad esempio, Matteo Salvini che, fino al 2019 non particolarmente noto per la sua devozione religiosa, si affida all’improvviso e con grande enfasi al cuore immacolato di Maria. Certo, memori delle sue fotografie al Papeete, un pò fatichiamo a vedere in Salvini un sincero fondamentalista cristiano. Ma, alla luce di quanto scritto finora, sarebbe un errore limitarci a sorridere rispetto a queste ricorrenti manifestazioni di salviniana devozione. D’altra parte non esiste solo Matteo Salvini.
Ricordiamo ad esempio il XIII Congresso Mondiale delle Famiglie, che si svolse a Verona nel 2019, e che vide la partecipazione (oltre che di tre ministri dell’allora governo italiano e di personalità dei movimenti anti gay, antiabortisti, anti parità di genere ecc. di mezzo mondo, inneggianti, fra le altre cose, alla legge di Putin contro l’omosessualità) anche di Giorgia Meloni e di tanti esponenti della galassia extraparlamentare della Destra estrema. Conosciamo anche il punto di vista di alcuni cattolici, persino di Principi della Chiesa, nei confronti di Papa Francesco, giudicato non abbastanza rigoroso. Ricordiamo infine, come a saldare i due mondi che stiamo descrivendo, quello delle forze americane cristiane che hanno sostenuto Trump e l’Europa, la famosa lettera che l’Arcivescovo Carlo Maria Viganò scrisse al Presidente Trump poco prima delle elezioni di Novembre.
Tutto ciò può portare ad una conclusione preoccupante. Le divisioni profonde in seno alla società occidentale, la crisi apparentemente inarrestabile dell’economia reale alla quale tuttavia non si accompagna una crisi della finanza (il che comporta situazioni paradossali, come il verificarsi del dato peggiore sull’occupazione americana e quello migliore per Wall Street nello stesso giorno, a significare povertà sempre maggiore di strati sempre più ampi della società, accompagnata dal crescente benessere del mondo finanziario) provoca una crescita esponenziale della quantità di cittadini europei e americani che non trovano più, nelle tradizionali forze politiche e nelle tradizionali proposte politiche della democrazia di stampo liberale o social democratico, risposte ai loro problemi.
Esiste ormai in Occidente un vuoto di rappresentanza politica e culturale di proporzioni allarmanti. Un vuoto di queste dimensioni non resterà a lungo incolmabile. Non attende che di essere riempito da qualcuno o qualcosa. Il fondamentalismo suprematista cristiano possiede alcune delle caratteristiche necessarie per candidarsi ad essere quel qualcosa.
Esso può fornire una fede a chi non ha più speranza. Una dottrina a chi non ha più cultura. Una verità unica e semplice ad una società che ha smarrito la capacità di distinguere fra realtà e fake news. Una direzione priva di dubbi in un sistema che si avverte come troppo farraginoso, inefficiente e complesso.
Il fondamentalismo cristiano dispone dei mezzi finanziari necessari a crescere e ad imporsi. Dispone delle persone di riferimento e dei movimenti di attivisti. E dispone, cosa più importante di tutte, della strategia giusta per avere la possibilità di prevalere: la capacità di ingaggiare una guerriglia culturale che permei la società nel suo vissuto quotidiano.
E’ possibile, alla luce di tutto questo, che il genere di violenza che abbiamo visto a Capitol Hill sia solo l’inizio dei problemi, di una lunga serie di scontri violenti fra il suprematismo cristiano bianco e le forze della democrazia liberal americana, rese ancora più deboli dagli evidenti squilibri economici dei quali soffre la nostra società, invece che il segno della fine di Trump.
Un fondamentalismo cristiano in Europa rischia poi, oltre che di distruggere le nostre democrazie, di creare le condizioni per uno scontro violento con l’altro fondamentalismo religioso che ammorba il nostro mondo: quello islamico.
Il fatto che, finora, l’Europa abbia opposto lo Stato di Diritto alla follia del terrorismo islamico, lungi dall’averci messo in una condizione di debolezza, ha invece protetto i cittadini europei di qualsiasi credo religioso da una vera e propria guerra di religione. In Europa siamo stati maestri di questo genere di scontri, ai quali abbiamo sacrificato nei secoli milioni di persone.
Da oggi in poi, converrà dunque smettere di sorridere quando vedete un politico europeo, apparentemente folgorato sulla via di Damasco, che si raccomanda alla Madonna. Smettere di pensare che i predicatori americani che arringano folle di migliaia di persone siano solo un’immagine pittoresca fra le tante che arrivano da Oltreoceano. Smettere di considerare la lotta per i diritti della comunità LGBTQ o per la parità di genere una lotta che, in quanto maschi o femmine eterosessuali, in fondo non vi riguardi. Smettere di limitarci a scuotere il capo quando ci capita di ascoltare o di leggere discorsi razzisti, perché se il razzismo si salda con il fondamentalismo religioso politico, allora possiamo davvero finire nei guai.
Perché è infatti proprio allora che potremmo trovarci a vivere il famoso Scontro di Civiltà del quale tanto si è favoleggiato negli ultimi vent’anni. E allora, rimpiangeremo anche la nostra fragilissima, inefficientissima e corrottissima democrazia.
Cassandra Scrive
Mia madre è stata una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto.
Anche se nessuno le credeva mai, era capace di prevedere il Futuro. Io litigavo spesso con lei: le sue previsioni erano immancabilmente catastrofiche e, quando avevo vent’anni, il suo pessimismo mi dava molto fastidio. Me la ricordo bene, seduta sulla sua poltrona preferita, con il suo whisky e le sue sigarette, i capelli precocemente imbiancati e l’aria depressa, mentre mi guardava con l’espressione triste che hanno i Profeti quando cercano, senza successo, di convincere i loro interlocutori della bontà delle loro profezie. Non so se vi sia mai capitato di entrare in polemica con un Profeta. Spero che non vi capiti mai, perché entrare in polemica con chi ha ragione, sapendo tuttavia che non ha completamente ragione, avvertendo che sbaglia qualcosa di importante, che non si è però in grado di identificare con precisione, è un esercizio particolarmente frustrante e faticoso.
Le nostre discussioni sulla Politica e sulla Società si chiudevano immancabilmente con me che abbandonavo la sala arrabbiato e pieno di indignazione, e con mia madre che, in silenzio, riprendeva a bere.
In realtà mia madre non era un Profeta, ed io non ero arrabbiato con lei. Come sa bene chi l’ha conosciuta, mia madre era una persona molto dolce, di enorme acume e di grande cultura che si limitava ad applicare l’intelligenza alla lettura dei fatti del Presente, alla luce di quelli del Passato, per cercare di individuarne le conseguenze nel Futuro. Ed io ero arrabbiato con me stesso, perché sentivo di non avere il potere di salvarla.
Oggi io vivo nel Futuro che mia madre prevedeva, ed ogni giorno che passa non posso che constatare quante delle sue conclusioni si siano rivelate perfettamente esatte. Perché, allora, non veniva ascoltata?
Solo con il tempo, mi sono reso conto anche del fatto che ciò che impediva a me, come a tanti altri, di crederle fino in fondo, non fosse il cosa dicesse, ma il come lo dicesse. Mia madre era timida, e soffriva di depressione. Benché fosse molto amata e ammirata da tantissima gente, compresi i suoi studenti di Storia e Filosofia al Liceo, ella veniva amata e ammirata da lontano. Le persone, ad eccezione di pochissime, tendevano a considerarla altro da sé, diversa, in qualche modo irraggiungibile. Percepivano inconsciamente la sua intima disperazione, e se ne tenevano distanti.
Come Cassandra, il personaggio della mitologia troiana costretto a predire il Futuro senza mai essere creduto, per via del suo rifiuto dell’amore di un dio, che per punirla le aveva sputato sulle labbra, mia madre condiva infatti le sue esatte previsioni con un’aura di pessimismo e di tragicità che impediva agli altri di cogliere la ragione al di là dell’emozione. Per quanto fossero ragionevoli le cose che diceva, le emozioni che gli interlocutori percepivano erano talmente tristi che essi erigevano inconsciamente una barriera difensiva.
Mia madre compiva anche un altro errore, questo di carattere metodologico, che aveva a che fare con la funzione del Tempo relativamente alle conseguenze delle cose.
Le conseguenze dei fatti possono essere previste. Ma è molto difficile, soprattutto quando i fatti riguardano lo sviluppo della Società, immaginare il tempo necessario perché esse si dispieghino nella loro completa evidenza. Il tempo è un fattore della complessità che non può essere ignorato, ma che è quasi impossibile calcolare. Sbagliare i tempi equivale, per la maggior parte di noi, a sbagliare le previsioni. Quello che mia madre ha immaginato sulla Società è vero oggi, a quasi vent’anni dalla sua scomparsa, ma non era altrettanto vero a cinque anni dalla sua morte.
Questo Blog, che spero di avere la costanza di proseguire, è dedicato a mia madre. Da lei ho ereditato la curiosità per i processi di cambiamento della società, ed una certa capacità di leggerli, senza averne ereditato la tragicità. Si parlerà di Politica, e un pò anche di Cinema, le mie due grandi passioni, con chi vorrà farlo.
Sapendo una cosa che mia madre, purtroppo, non capì mai. Che, per quanto il mondo possa essere un posto terribile, lo è molto meno di quanto non sembri, e non lo è mai fino in fondo. Perché, oltre alle conseguenze negative dei processi, esistono sempre anche le opportunità per ribaltarle.