Qualsiasi manuale di sceneggiatura consiglia di trarre spunto dalla realtà.
In effetti nessun arabesco della fantasia può eguagliare l’originalità, la drammaticità ed il peso degli eventi che si verificano a volte nel mondo reale. Il neorealismo è stato di una potenza dirompente perché ha indagato la realtà, dopo molti anni nei quali essa era stata edulcorata, mistificata, nascosta.
Del resto, chi avrebbe potuto inventare una storia coerente sul crollo del Muro di Berlino, se questo non si fosse verificato davvero?
Chi avrebbe potuto trovare credibile una scena nella quale il Papa, in una Piazza San Pietro frustata da una pioggerellina gelida insinuante, avesse pregato in perfetta solitudine, se questa non si fosse verificata davvero?
La realtà ci offre continui spunti narrativi.
Ma noi non li prendiamo più in considerazione.
Un padre ed un figlio tredicenne camminano in mezzo alla strada. Una bomba cade accanto a loro. Il ragazzo viene colpito a morte. Il padre tiene la mano del figlio fra le sue, mentre il giovane muore. Continua a tenerla dopo che è morto. La tiene ancora quando arrivano i soccorsi ed un telo di plastica viene steso sul cadavere. Dal telo fuoriesce solo la mano del ragazzo che il padre, sgomento, non riesce a lasciare andare. Il padre è seduto a terra accanto al figlio, e gli tiene la mano, mentre una donna cerca inutilmente di consolarlo. Lui guarda nel vuoto. Forse sta chiedendo spiegazioni a Qualcuno: spiegazioni su un evento inconcepibile. Ma comunque, sotto choc, non si decide a lasciare andare la mano del figlio.
È accaduto davvero, da qualche parte in Ucraina.
La scena nella quale Anna Magnani viene presa a fucilate mentre insegue il suo Francesco in “Roma Città Aperta” ha la forza della scena del padre che tiene la mano del figlio morto fra le sue. Infatti, essa prende spunto da un fatto reale, la vicenda di Teresa Gullace.
Ma, mentre su quell’episodio reale Rossellini ha costruito un capolavoro della storia del cinema mondiale, dubito fortemente che qualcuno faccia altrettanto con la scena del padre che tiene ostinatamente la mano del suo bambino morto.
Un vecchio articolo di Arthur Miller descrive come fosse la vita a New York quando non esisteva ancora l’aria condizionata. Nessuno scrittore avrebbe potuto inventare le scene descritte in quell’articolo. Infatti, nessun film, né classico, né contemporaneo, ci restituisce scene con folle composte da famiglie intere che, in biancheria intima, dormono nei parchi o sulle scale antincendio dei loro appartamenti di New York. Nessun film narra il fatto che i primi condizionatori d’aria dovessero essere riempiti d’acqua e che, a causa del fatto che lo scarico non era efficiente, dovevano poi essere rivolti verso il bagno piuttosto che verso la camera da letto. Immaginate una commedia romantica, o un giallo, che usasse questa caratteristica dei primi condizionatori come ispirazione per un meccanismo narrativo, o per una scena.
Una delle scene più famose della storia del cinema è quella nella quale Marylin Monroe si ferma sulla grata della metropolitana per godere un po’ della corrente fresca che sale da sotto, sollevandole la gonna. Non so se l’autore della sceneggiatura avesse mai visto qualcuno fare altrettanto nella vita reale. Ma sicuramente Wilder e Axelrod ricordavano gli anni in cui gli americani facevano di tutto per trovare refrigerio, così come descritto da Miller nel suo articolo.
Perché il cinema e la televisione mondiali, se si eccettuano i fatti di cronaca nera, non “pescano” più dalla realtà?
La spiegazione immediata: siamo ormai troppo imbevuti dalle immagini della realtà per prestarvi attenzione. La nostra immaginazione è affollata da miliardi di immagini e da milioni di storie. Troppe perché una qualsiasi di esse ci colpisca ormai davvero nel profondo. Ci siamo assuefatti alla rappresentazione incessante della realtà, che ci viene offerta senza la chiave di lettura della narrazione. Quando un giornale online pubblica il video di un’esplosione o di un fatto violento, come una rissa, in genere lo fa precedere da un cartello che avverte il lettore sensibile del contenuto scioccante. Ma poi, la visione non provoca alcuna emozione: sembrano tutte clip di film o serie nelle quali accadono episodi simili, con l’aggravante che, non essendo preparati, coreografati e girati professionalmente, sembrano spezzoni di opere di serie B.
Una spiegazione appena più evoluta: il mondo è diventato troppo complesso per cercare di decifrarlo grazie ad una storia che prenda spunto da un episodio reale per costruire un significato universale. Possiamo al massimo aspirare a cercare di decifrare una relazione di coppia, o un omicidio.
Però in questo modo stiamo rinunciando alla ragion d’essere stessa della narrazione, compresa quella per immagini, che è appunto il tentativo di dipanare le tortuose vie del mondo attraverso la costruzione di una metafora, di un mito.
Il rifiutarsi di narrare la realtà produce l’effetto di condannarla velocemente all’oblio.
Due anni fa è accaduto un fatto senza precedenti nella Storia contemporanea, e del tutto inconcepibile dai canoni dell’invenzione narrativa pura, perché un racconto sulla pandemia sarebbe stato giudicato naïf nella sua implausibilità, se essa non si fosse verificata veramente.
Un mondo tutto teso a correre, a produrre, a crescere si è fermato di colpo. Spento. Finito. Chiuso. Da un giorno all’altro, per ordine di governi il cui potere sulla nostra vita quotidiana giudicavamo praticamente inesistente. Centinaia di milioni di persone chiuse in casa per giorni, settimane e mesi. Le attività produttive ferme. I commerci internazionali, mantra della globalizzazione, ridotti ai minimi termini. Crolli del PIL mondiale di 6, 7, 8 punti percentuali, accettati come inevitabili e riassorbibili in un mondo abituato a stracciarsi le vesti per un meno 0.1%. Il turismo mondiale annichilito.
Impossibile inventare il lockdown in una storia, se non ci fosse stato davvero. Nel senso che se non fosse avvenuto veramente sarebbe stato giudicato completamente irrealistico. A ripensarci oggi, infatti, sembra del tutto assurdo.
Le scene della realtà di quel periodo dalle quali prendere spunto per una narrazione sono innumerevoli.
Il già citato Papa solitario.
Gli aeroporti chiusi.
Manhattan deserta. Piccadilly Circus deserta. La Porta di Brandeburgo deserta. Piazza di Spagna deserta. Place De La Concorde deserta. Plaza Mayor deserta. La Piazza Rossa deserta. Piazza Tien An Men deserta.
I cancelli delle fabbriche sprangati.
I porti inattivi.
I treni fermi.
I negozi chiusi.
I cinema ed i teatri chiusi.
Gli animali selvatici che, grazie all’improvviso silenzio, si riprendono i centri cittadini ed attraversano lenti e tranquilli autostrade completamente prive di macchine.
Famiglie divise: figli impossibilitati a visitare genitori anziani.
Adolescenti chiusi in casa per decine di giorni.
Morti solitarie in ospedali gremiti.
Personale sanitario bardato come in un film di fantascienza.
Per settimane.
In tutto il mondo.
Una cosa epocale.
Una piaga biblica.
Eppure, che mi risulti, solo due opere “mainstream” hanno preso qualche spunto da questa realtà. La serie di Apple, The Morning Show. Ed, in senso metaforico, il film Don’t Look Up che, pur parlando di un meteorite, ragionava sul rapporto fra Scienza ed opinione pubblica nell’Era di Internet.
Ora immaginate: su Wikipedia ci sono 570 pagine di film sulla Seconda Guerra Mondiale, e ciascuna pagina contiene circa dieci titoli. I film sulla Seconda Guerra Mondiale sono migliaia.
Sull’arresto cardiaco del mondo in occasione del primo impatto del Covid 19 ci sono due opere audiovisive importanti, una delle quali ne parla solo in modo metaforico.
So per certo, e lo sanno tutti i colleghi, che l’industria del cinema e della televisione non desidera storie sul Covid. Si ritiene che il pubblico non voglia vederle, che preferisca rimuovere quello che è accaduto. I più raffinati fra gli operatori industriali dicono che non si deve parlare di Covid perché il Covid non è “una storia finita”.
Ma la vicenda della pandemia è senz’altro la storia reale più clamorosa che sia accaduta all’umanità, appunto, dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Di cosa dovremmo mai parlare se non della esperienza più incredibile che abbiamo vissuto collettivamente da quando la maggior parte degli abitanti del pianeta è venuta al mondo?
Perché abbiamo così disperatamente voglia di rimuovere la realtà, anziché tentare di elaborarla, traendone spunto, per superarla? Perché la realtà ci spaventa al punto da dimenticarci di averla vissuta?
Pensateci: la maggior parte di noi pensa ormai al lockdown quasi come ad un sogno. Una specie di trip collettivo, come una sbornia improvvisa, scivolata via con la stessa velocità con la quale è arrivata. Eppure, è successo davvero.
Questa gigantesca opera di rimozione collettiva della realtà non riguarda solo il Covid. Riguarda tutta la realtà. Una volta che i media cambiano l’oggetto del loro interesse, improvvisamente tutti dimentichiamo, o ridimensioniamo fortemente, ciò di cui abbiamo parlato fino a quel momento, seguendo il flusso della conversazione globale su qualcosa di completamente nuovo. La guerra in Ucraina non è già più un argomento di conversazione da prima pagina. L’Afghanistan dopo la ritirata occidentale, ha cessato di esserlo molto presto. Il clima è un argomento abbastanza costante, ma sta lì come un rumore di sottofondo. Fino a pochi giorni fa si esclamava che le famiglie sotto la soglia di povertà in Italia sono aumentate in modo drammatico. Eppure, nemmeno io riesco più a ricordare il numero preciso. Gli esempi della nostra capacità di rimozione sono infiniti, non solo italiani e niente affatto confinati alle grandi questioni. Anche la vita quotidiana viene rimossa con la stessa facilità.
Qualcuno può pensare che tutto ciò sia voluto. Che sia interesse delle élites politico finanziarie globali continuare a “drogare” il pubblico affinché esso non si soffermi mai a riflettere su nulla per un tempo abbastanza lungo. Io, che non riesco a pensare in termini di complotti globali, penso che non vi sia un disegno specifico, ma che siamo tutti inseriti in un meccanismo per il quale la velocità del consumo di realtà risponde alle stesse regole alle quali risponde il consumo di qualsiasi altra cosa. Compriamo. Ogni giorno. Compulsivamente. E se smettiamo di comprare a ritmi vertiginosi, oggetti o concetti, e ci soffermiamo su ciò che abbiamo comprato, il meccanismo capitalistico si inceppa. Non è volontà di nessuno, è il modo in cui funziona il sistema socio-economico nel quale viviamo.
E tuttavia, il consumo frenetico della realtà, e la nostra mancanza di capacità di trarne storie che abbiano un significato, è qualcosa che ci obnubila sempre di più. Toccherebbe agli artisti, in particolare agli scrittori, agli sceneggiatori, ai drammaturghi ed ai poeti, trarre qualcosa di sensato dalla realtà. Ma noi abbiamo abdicato alla nostra funzione.
In mancanza di elaborazione della realtà, siamo dei lemming che corrono velocissimi verso il loro ultimo salto.