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Para Bellum

Con il disastro che abbiamo sotto gli occhi, scrivere di Guerra e di Pace è oggi un esercizio scivoloso. Inutile cercare risposte specifiche alle crisi in atto. Su Israele e Palestina, ad esempio, la Storia, che non è solo quella dalla Dichiarazione Balfour ad oggi, ma che ricomprende quella plurimillenaria dei figli di Sem, è troppo lunga e complicata perché un non esperto possa anche solo tentarne una lettura, senza cadere in una qualche forma di parzialità. Ma, così come la guerra fra Russia e Ucraina, l’aggressione terroristica del 7 ottobre e la risposta di Israele non possono non interrogare la coscienza di tutte quelle persone che credono profondamente nella Pace.

In questo momento storico il mondo si sta pericolosamente esercitando in una serie di conflitti regionali dall’esito imponderabile, quasi tutti, per un motivo o per l’altro, potenzialmente detonatori di conflitti su scala globale. Naturalmente, in questo senso penso, oltre a Israele e Palestina, ed all’aggressione russa dell’Ucraina, anche all’esodo di un milione di armeni dal Nagorno Karabakh. Alla pressione cinese su Taiwan. Alle tensioni nei Balcani. Alle dozzine di crisi, colpi di Stato, rivolte, instabilità del continente africano, che non cerco nemmeno di ricapitolare.

In quanto principale superpotenza militare ed economica globale, gli Stati Uniti giocano, ovviamente, un ruolo in ciascuno di questi conflitti, che essi siano in atto o in fase di incubazione. La strategia di Biden sembra essere finalizzata a tenere i focolai sotto controllo, permettendo loro di svilupparsi solo fino ad un certo punto, cercando il più possibile di circoscriverli, e lasciando che il Tempo li porti allo stallo per poi, presumibilmente, condurre delle trattative per ristabilire, più o meno, lo status quo ante. Questa strategia è particolarmente evidente sul fronte russo-ucraino, dove la famosa avanzata ucraina si è impantanata. L’America dà l’impressione di comportarsi come quei medici che permettono alle febbri di crescere, controllandone l’evoluzione, per dar modo alla malattia di sfogarsi senza mai giungere a livelli autenticamente pericolosi per il malato.

Tornerò su questa strategia fra poco. Ma prima vorrei fare qualche considerazione su quello che stiamo vedendo. Sono considerazioni ovvie, ma non vengono spesso messe in fila. Prima di tutto: in tutti i casi, i conflitti sorgono laddove vi sono problemi irrisolti da troppo tempo. Ognuna delle questioni maggiori è figlia di decenni, se non di secoli, di fallimenti nella composizione delle contese. In secondo luogo, il fattore etnico o religioso, o una combinazione dei due, gioca un ruolo cruciale in ciascuno di essi. In terzo luogo, tutti i conflitti sono scoppiati, o stanno scoppiando, in zone di confine. Confini politico culturali fra Occidente e Oriente. Confini fra sfere d’influenza stabiliti all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Confini fra popolazioni di etnie o religioni diverse. E’ come se ogni scontro avvenisse in prossimità di una faglia terrestre, in perenne smottamento.

Da queste considerazioni ne discendono alcune altre. Primo: l’inadeguatezza delle organizzazioni sovranazionali di fronte alle crisi. Ormai da moltissimo tempo risulta evidente che le Nazioni Unite non riescono ad impedire il formarsi di crisi internazionali gravi. La recente votazione sulla proposta giordana di cessate il fuoco su Gaza, in favore della quale hanno votato 120 nazioni, 45 si sono astenute e solo 14 hanno votato contro, è l’ennesimo lampante esempio dell’inefficacia dell’ONU nella composizione delle controversie internazionali. Non solo il cessate il fuoco non è avvenuto, nonostante la stragrande maggioranza dei voti a favore, ma Israele si è spinta fino ad accusare il Segretario delle Nazioni Unite di antisemitismo, contestandogli in questo modo platealmente quel ruolo super partes che esso presuppone.

La seconda deduzione è che gli Stati Uniti stanno fallendo nella loro missione imperiale. L’idea che, dopo il crollo del Muro di Berlino, il mondo sarebbe stato in Pace sotto l’ombrello americano è definitivamente tramontata. Lo è ormai da anni, ma oggi la frana comincia a somigliare ad un terremoto. L’America non riesce a trovare soluzioni adeguate alle crisi, non riesce ad interpretare il suo ruolo di maggiore super potenza globale in modo adeguato. Voglio sottolineare che non gliene faccio necessariamente una colpa: il mondo è troppo complesso perché sia possibile definirlo in termini di “buoni” e “cattivi”, divisione che gli americani, per Storia e cultura sono portati istintivamente a fare. Soprattutto, quello americano è il primo impero nella Storia che debba prendere in considerazione gli umori del proprio elettorato.

Dal Vietnam in poi si è capito che, l’America perde le guerre dentro casa. L’unica osservazione che mi sento di fare in merito è che gli americani ripongono troppa fiducia nella loro capacità militare e nella loro solidità economica, mentre non appaiono particolarmente efficaci in termini di strategia politico diplomatica. Gli Stati Uniti rischiano ogni anno il default, che riescono ad evitare all’ultimo secondo solo grazie ad infinite mediazioni fra forze politiche sempre più distanti e confuse. Che la Pace nel mondo dipenda anche dagli umori dell’ultimo senatore del Wisconsin al cui voto sia rimasta appesa la solvibilità dello Stato non è rassicurante. Si dirà che questa è la Democrazia. E va benissimo. Ma il punto è proprio questo: la Democrazia non è una forma di governo che si presti alla gestione di un Impero di fatto, dove le decisioni che contano non possono essere prese tenendo in considerazione imminenti elezioni domestiche. La contraddizione fra ideale democratico ed egemonia globale si mostra, di questi tempi, particolarmente insanabile. Quanto alla potenza militare, quella sulla quale l’America può davvero contare senza dubbi, cioè quella nucleare, è utile a distruggere il pianeta, non a vincere una guerra a seguito della quale si presume che resti qualcuno a gestire la Pace.

La terza deduzione è che il mondo uscito dalla fine dell’Unione Sovietica e dell’ideale Socialista non è più governabile. I Paesi che, fra la fine della Seconda Guerra Mondiale ed il 1989, hanno cercato nel Socialismo la strada per modernizzarsi ed affrancarsi dalle antiche faide etniche, religiose, tribali, ecc., si sono ritrovati senza una credibile alternativa ideologica alla quale ispirarsi. E sono ripiombati in ciò che erano prima. La laicità degli Stati, soprattutto quelli africani e arabi, è stata rimessa in discussione e, quasi ovunque, sconfitta.

La quarta deduzione è che l’Europa ha perso quasi ogni strumento di pressione a sua disposizione. Pur essendo il continente più ricco e libero del mondo, anche rispetto all’America, l’Europa ha rinunciato, per presunta convenienza, a qualsiasi reale pretesa d’influenza politica globale. La principale preoccupazione dell’Unione Europea in politica estera resta quella di mantenere l’ormai precario status economico sociale dei propri cittadini, ritenendo che il proprio problema più importante sia impedire il più possibile l’immigrazione. Non dispone di un esercito comune. Non dispone di una politica estera comune. Non dispone di un seggio unico presso il Consiglio dei Sicurezza delle Nazioni Unite. Ha inoltre perso un pezzo importante, nell’abbandono del Regno Unito.

Nonostante l’Europa sia fra i principali responsabili storici di molti fattori d’origine delle crisi, dalle persecuzioni secolari degli ebrei all’Olocausto, dal colonialismo (ricordare che l’Italia possedeva una concessione territoriale in Cina, appare oggi ridicolo ancor prima che insostenibile), alla predazione contemporanea delle materie prime nei Paesi africani e arabi in cambio del sostegno a regimi improbabili, l’Unione è completamente afona. A questo proposito osservo che il Rappresentante Speciale della UE per i Paesi del Golfo, che nella crisi fra Israele e Palestina giocano un ruolo di una certa importanza, Luigi Di Maio, non ha rilasciato, in quest’ultimo mese, nemmeno un’intervista. Essendo Di Maio diventato un tecnocrate questo silenzio non è colpa sua, ovviamente: è la UE che non vuole esprimersi. Immagino perché non abbia la più vaga idea di cosa dovrebbe dire.  

La quinta deduzione è che la divisione in sfere d’influenza globali concepita a Yalta è finita. L’Inghilterra si è auto ridotta ad una piccola potenza regionale, resa significativa unicamente dalla disponibilità dell’atomica che, come già ricordato, se non ha una funzione di deterrenza ha una funzione di distruzione complessiva, ed è dunque sostanzialmente inutile. La Russia, orfana dell’ideale comunista, che faceva da collante ideologico, non è l’Unione Sovietica ma solo uno sterminato Paese molto povero e arretrato (dunque più pericoloso) e, soprattutto, la Cina non è quella del 1945. Inesistente a Yalta, si avvia oggi a superare gli Stati Uniti, in tutto.

Quindi il vero conflitto di fondo è, come sappiamo tutti, fra queste due ultime potenze.

Se, alla luce di quanto detto, adesso torniamo a guardare alla su menzionata strategia di contenimento di Biden, la sensazione è che, per motivi diversi, l’America e la Cina stiano entrambe prendendo tempo, in vista dell’inevitabile scontro. L’America perché si rende conto che un conflitto con la Cina può esserle fatale. La Cina perché non è ancora del tutto pronta ad uno scontro diretto con l’America.

L’ultima deduzione è l’assoluta inadeguatezza delle classi dirigenti, in particolare della classe politica, rispetto ai problemi che le investono. Se guardiamo ai responsabili delle scelte politiche mondiali, l’unica figura che garantisca un minimo di sicurezza è quella di Joe Biden. Ma, al di là delle gaffes, Biden è comunque un uomo di 81 anni, e quasi certamente non farà un secondo mandato. La politica di contenimento potrebbe esaurirsi molto prima di quanto non ci si aspetti. Al di là dell’ansia di protagonismo di Emmanuel Macron, i leader europei semplicemente non esistono. Quelli dei Paesi direttamente coinvolti nei conflitti, come Putin e Netanyahu, sono del tutto screditati sul piano internazionale. Per un verso o per l’altro in difficoltà in patria, sono sostenuti obtorto collo dai loro sponsor maggiori, la Cina da un lato, gli USA dall’altro.

In particolare, la pazienza americana nei confronti di Netanyahu, mai amato dall’Amministrazione corrente, ha già mostrato, fra le righe, qualche segnale di esaurimento. E’ evidente che, più che a distruggere Hamas, compito quasi impossibile da portare a termine data la natura non statale, o non solo e non completamente statale, dell’organizzazione, l’azione di Israele in questo momento è principalmente rivolta a ripristinare la fiducia dei cittadini israeliani nella potenza militare della loro nazione, gravemente compromessa dal fallimento spettacolare della loro intelligence, considerata per certi versi la migliore del mondo, il 7 ottobre. Ma l’intensità con la quale Israele sta colpendo Gaza appare, anche agli occhi degli amici di Israele, Biden compreso (gli inviti alla moderazione da parte del Presidente americano si susseguono), sempre più sproporzionata rispetto all’esigenza di Netanyahu di riabilitare sé stesso e l’apparato di difesa israeliano agli occhi scioccati dell’opinione pubblica interna.

In considerazione di questi fattori, chi lavora per la Pace? Il pacifismo mondiale è frazionato in troppe organizzazioni, le cui basi ideali sono sovente sovrapposte ad altre questioni – la promozione del diritto internazionale, della democrazia, dei diritti civili, dell’ambientalismo, delle confessioni religiose ecc. La conversazione collettiva sulla Pace si traduce così spesso in un dibattito su altro. Questo è naturale, visto che, mentre la Pace è un obiettivo di civiltà, che per sua natura presuppone dibattito, la Guerra è la ricaduta in una dimensione elementare delle relazioni umane, che non ne presuppone alcuno. La Guerra è, per definizione, l’interruzione del dibattito. Tuttavia, per essere efficace il Pacifismo dovrebbe ritrovare un minimo comun denominatore ed attivarsi su un obiettivo preciso. Che, allo stato dell’arte, non potrebbe che essere quello di evitare lo scoppio della Terza Guerra Mondiale.

Da più parti si sente dire che la Terza Guerra Mondiale sia già scoppiata. Se certamente le crisi in atto ne configurano una possibile premessa, la Guerra Mondiale, intesa come la mobilitazione generale degli eserciti delle grandi potenze, non è ancora, per fortuna, scoppiata. L’unità delle forze pacifiste di tutto il mondo sarebbe cruciale per evitarla. Una mobilitazione generale del pacifismo occidentale non sarebbe sufficiente. Anzi, verrebbe percepita come un segnale di debolezza. Questo implica prima di tutto un grande sforzo per aiutare i pacifisti di Nazioni come Russia e Cina ad organizzarsi e a rafforzarsi.

Sarebbe possibile questo? Ovviamente si tratta di un’azione complessa, che non può nemmeno essere immaginata se non si parte dal presupposto che, in quei Paesi i pacifisti rischiano la galera, se non la vita. Questo significa che nessuna azione di sostegno potrebbe prescindere dal coinvolgimento attivo proprio di quelle organizzazioni sovranazionali, come le Nazioni Unite e l’Unione Europea, che al momento brillano per la loro debolezza ed inefficacia.

E veniamo così a trovarci nel bel mezzo di un circolo vizioso. La debolezza delle organizzazioni sovranazionali nate per garantire la Pace nel mondo ha condotto alla presente situazione di pre-conflitto mondiale, ed il movimento pacifista mondiale non può sperare di avere alcuna efficacia in assenza del sostegno attivo da parte di tali organizzazioni. Dunque, sembra purtroppo che il Pacifismo non abbia la possibilità di influire sui problemi in corso.

Siamo dunque destinati a vedere la Terza Guerra Mondiale? Certamente il posizionamento delle grandi potenze e di quelle regionali da loro controllate su fronti contrapposti si sta ormai cristallizzando. Ancora una volta è l’America, per via della posizione che ha assunto da ormai più di un secolo, di guida dell’Occidente, che deve trovare il modo di disinnescare il pericolo maggiore, anche perché in ultima analisi, è proprio la conservazione del suo status ad essere minacciata. E qui torna di nuovo la strategia di contenimento Biden. Se lasciare che i focolai si sfoghino può essere una strategia saggia nel breve periodo, non lo è nel medio lungo periodo. Una qualsiasi delle crisi in corso può degenerare in maniera incontrollata in qualsiasi momento, a causa di un errore, di un’ambizione personale, dell’imperizia politica dei dirigenti, della totale perdita di vista della Ragione, o della moderazione. Conviene inoltre più alla Cina che all’America prendere tempo.

Quindi se gli Stati Uniti volessero evitare una guerra globale, dovrebbero riconoscere i mutati rapporti di forza e convocare una nuova Yalta nella quale ridisegnare la mappa del mondo del XXI secolo, garantendo alla Cina quel “posto a tavola” che il grande Paese orientale si è comprato in questi ultimi tre decenni. Saranno poi la stessa Cina a ridimensionare le ambizioni russe, e la Russia a ridimensionare quelle iraniane, eccetera. Naturalmente non basta la disponibilità americana. E’ necessario che i suoi interlocutori si siedano al tavolo con la medesima lealtà. E’ possibile questo? Certamente vale la pena correre il rischio.

Tutto ciò significa che l’America è alla sua seconda vera prova come potenza egemonica mondiale, la prima essendo stata la Guerra Fredda. Per agire da vera potenza imperiale, però, dovrebbe per prima cosa risolvere la contraddizione ideale, che Cina e Russia non hanno, fra Democrazia e Impero. Ci ha provato, inventandosi “l’esportazione della Democrazia” che è la versione contemporanea della britannica “missione dell’Uomo Bianco”. Azioni di politica imperiale travestite da tentativi di portare diritti e libertà laddove essi mancano. Ovviamente non ha funzionato: per una larga maggioranza dei Paesi del mondo questa invenzione dei neo-con americani non è altro che un messaggio propagandistico a difesa degli interessi geopolitici ed economici degli USA e dell’Occidente.

Questo non significa che una parte dell’America non abbia sinceramente creduto nella sua missione di portare la Democrazia nel mondo. Abbiamo visto altri esempi nella Storia nei quali le grandi potenze hanno cercato di esportare le proprie conquiste ideali sulla punta delle baionette. Pensiamo a Napoleone ed agli ideali di libertà della Rivoluzione Francese. Purtroppo, non è così semplice: le evoluzioni del pensiero socio politico si formano da sé, o non si formano

Il centro della questione è il ripristino di un equilibrio pacifico fra grandi potenze, al fine di garantire la vita della maggioranza degli esseri umani. Proprio come in tutte le altre fasi della Storia. Democrazia e libertà non c’entrano per nulla. Si tratta puramente e semplicemente di riconoscere lealmente il peso specifico degli attori in campo e di trovare un accordo di convivenza sulla base di una valutazione puntuale della forza di ciascuno. Una pura operazione di ridefinizione delle sfere d’influenza.

Forse conviene sottolineare che, se questa ridefinizione non avverrà grazie alla lungimiranza dei politici, essa avverrà inevitabilmente al termine di una guerra mondiale. E, così la Prima Guerra Mondiale non fu sufficiente a dirimere tutte le questioni in campo, potrebbe non bastare la Terza.  

Resta la domanda fondamentale. L’America sarà capace di tale lungimiranza? Sarà capace di abbandonare la retorica dell’esportazione della Democrazia sulla quale fonda da vent’anni la propria politica estera? E’ in grado di abbandonare la retorica del Bene contro il Male? Potrà farlo, a beneficio di una visione pratica, finalizzata ad un equilibrio di Pace per tutti i popoli, ed alla conservazione del proprio status, esercitando apertamente la propria funzione egemonica ed affrontando una volta per tutte la contraddizione fra Democrazia e Impero agli occhi del proprio elettorato?

Saprà l’America condividere il Potere?

The Last Paradox

Artificial Intelligence, Labour and Liberal Democracies

Think of your childhood. How often did you fall off your bicycle before learning to ride without accidents? Or bump your head against the corner of a table before learning not to run around the house? How many times did you burn, cut, or bruise yourself before learning not to touch the “grown-ups” things? Well. This is how human learning works. To master any activity, you need to repeat it a number of times, making the same mistakes each time. This is as true for the three-year-old who needs to endure about fifteen bumps before learning to steer clear of that dreaded little table, as it is for the teenager who has to practice piano scales dozens of times before being able to play them flawlessly. It is true for the adult who keeps repeating the same neurotic behavior over the years, needing many hours of psychoanalysis sessions to change it, if not a trip to some Sanctuary.

Human beings learn slowly, and only through the repetition of the same mistakes, until they (sometimes) become aware of them. And even the awareness of the mistake is almost never enough, by itself, to prevent us from making it again. Just ask anyone struggling with addiction.

We’ve all heard phrases like, “I always pick the wrong ones” or “I find all the wrong ones.” Of course, in reality, it is we who willingly place ourselves repeatedly into the same type of unsatisfying relationship, due to our unresolved neuroses. It’s not that “I always find the wrong ones.” It’s that “I seek, and therefore find, the same type of person (or recreate the same type of situation).”

Human beings possess another specific characteristic: they tend not to actively deal with anything that does not appear immediately dangerous. Take climate. Nearly everyone now agrees that we are on the verge of, if not already in the midst of, a potentially devastating revolution in Earth’s environment for a significant portion of humanity. Yet, despite all the talk, nobody, neither at an individual nor collective level, is truly doing anything decisive about it. Unless we are already with one foot in the grave, we humans continue to walk by sheer inertia, even though we are fully aware of the chasm opening up just a few meters from us.

To sum up, humans learn slowly and do not protect themselves from the disasters they can foresee, despite being able to foresee them, unless they are already well beyond the point of no return.

Artificial Intelligence does not work this way. It is designed to learn instantly and exponentially from its own mistakes, applying what it has learned to the task immediately at hand. It will also react rationally to any imminent or foreseeable threat.

Over the past few months, there has been much discussion about ChatGPT-4, developed by OpenAI, a highly advanced model of a chatbot (i.e., software designed to simulate conversations with human beings). It suddenly became apparent to those who tried it that the software’s degree of evolution is such that it is realistically imaginable that ChatGPT-4 and its successors could soon replace a large portion of human workers in sectors hitherto considered “protected” from automation. Those associated with conceptual professions. Journalists, copywriters, screenwriters, writers, legal practitioners, various types of employees, financial analysts, teachers of different subjects, graphic designers, architects, researchers, urban planners, software developers, bankers, insurers, marketing experts, advertisers… All these professions, and many others which, in advanced capitalist societies, constitute the predominant sector, i.e., the Tertiary sector, can already today be largely absorbed by artificial intelligences.

The rapid development of AI has recently prompted a thousand stakeholders, led by Elon Musk, to publish a petition calling for a six-month pause in the development of this technology (you can read it here: Musk). Musk’s letter doesn’t do much, except reiterate the concerns that the entrepreneur had already shared with famed physicist Stephen Hawking in 2015, warning us that with Artificial Intelligence, we were playing with fire. But in light of the introduction of ChatGPT-4, Musk’s petition takes on the aspect of a distress signal. The problem is that a moratorium doesn’t serve any purpose in and of itself: what do we do with the six months of potential interruption in development? If we don’t use them to establish new guidelines for the study of these systems, nothing will have changed in six months.

(Since I first published this article in Italian, Open AI Ceo Sam Altman has testified during US Senate hearing on AI oversight: here)

As early as 2017, McKinsey began researching the impact that AI will have on the job market. The first report (you can find it here: McKinsey) suggests that by 2030, around 800 million jobs could be in some way replaced or in some way changed thanks to the adoption of Artificial Intelligence. The overall impression is that at the root of the problem, it’s not Artificial Intelligence per se, but rather, as usual, human beings.

In a podcast on the subject released a few days ago, journalist Ezra Klein, a former columnist for The Washington Post and The New York Times, emphasized the key point (here: Klein). The point is to understand what we want, as a society, from Artificial Intelligence. If we allow its development to be driven solely by the market, we can reasonably imagine that it will end up being a serious problem for humanity. In other words, it raises a question that has been troubling our societies for years. How can a weak political system regulate and control a strong economic system?

So here is the basic difference between human intelligence and artificial intelligence: human intelligence is neurotic and irrational, it proceeds through “catastrophes” – unexpected and sudden evolutions – not through the progressive and linear accumulation of information. On the other hand, artificial intelligence is rational.

In a study published at the end of March this year (here: Hendrycks), analyst Dan Hendrycks, director of the Center for AI Safety in San Francisco, applied the concept of Darwinian competition (the closest thing to the capitalist model of development) to the evolution of Artificial Intelligence. The scenario proposed by Hendrycks is more or less as follows: as AI evolves, multinational corporations and states, naturally in competition with each other, will involve it in increasingly strategic choices, as AI can identify them quickly based on increasingly complex cost/benefit analyses and predict multiple possible scenarios stemming from these choices.

Since such decisions are indeed complex, the more powerful and faster the AI, the less human intervention will be required in making them. If the input given to the AI is to find a way to outcompete its competitor, the AI will provide much faster and more accurate responses than humans would, based on far more data and many more possible actions. If the input is simply to prevail, no one can rule out that the easiest and quickest way to achieve success may be to somehow break the law. Of course, the regulatory body can easily prohibit the AI user from giving inputs that do not foresee breaking the law.

But it’s very easy to dodge this type of rule: for example, by not asking directly to break the law, but to find a way to circumvent it. Or to break it without getting caught. If a businessperson needs to have a criminal attitude and a strong propensity for risk to break the law without getting caught, all AI needs is for someone to ask it to do so.

As AI takes more and more complex decisions for us, we will stop supervising it, simply because it will be pointless to do so. It follows that, in the absence of some form of regulation, over time (we’re talking a few years, not decades), companies basing their strategic choices on AI will have a competitive advantage over those that do not. Hendrycks applies this same logic to states: those states that base their policies on AI will have a competitive advantage over those that base them on the fallible, cumbersome discussion within a Parliament or Government.

So here’s another significant difference between human intelligence and artificial intelligence. Artificial intelligence has no ethical concerns, except for those that humans decide to endow it with. To sum up: AI is much faster, much more capable of analyzing vast amounts of data and drawing conclusions, much faster at learning from its mistakes, and much more ethically neutral than a human being.

Regulating technology development is something we find extremely challenging. Capitalism is based on the premise that it is necessary to develop an ever-increasing amount of goods and services in order to generate ever-increasing wealth: over the past thirty years, we have discovered that technological goods and services naturally respond to this need for continuous development. Indeed, by investing in “consumer technology,” capitalism has managed to convince us that buying a new mobile phone every year makes sense, much more effectively than it was able to convince us to change our car or kitchen furnishings more frequently.

Putting a brake on technology development in our society would therefore be perceived today as an attempt to curb capitalism itself. For at least three centuries, there have been protests against the advent of new technology. So far, it has been found that for every job lost due to new technological developments, three or four have always been created. Of course, this kind of statistic does not take into account the fate of the individual who loses their job. But if for every English miner who lost their job in the 1980s, “Blatcherism” created five graphic designers, then overall, it’s good for the economy. Or so many thought, at least until automation mainly affected Western “blue collar” workers.

The threat that AI poses to employment is neither new nor imaginary: it is the obvious consequence of a development process inherent to Capitalism combined with technology, which has already changed the social face of Western countries starting from the manufacturing sector and which is now about to impact (is already impacting) the tertiary sector.

The sociological and political consequences of these economic choices, which coincided with the onset of consumer technology development, have been attempts to persuade each of us to give up the idea of a steady job and become an “entrepreneur of oneself” on the one hand, and a growing mistrust of politics, incapable of protecting us from the inevitable setbacks of self-employment, on the other. For decades, work – as understood in the 20th century – is no longer at the center of the political action of Western governments, whether right or left, except as an election campaign issue, to be forgotten the day after the elections.

We could at least slow down this trend if, as a society, we asked AI producers to determine what they want to achieve from it, trying to politically and culturally guide its development. Applying the power of AI to find a solution to the climate crisis, rather than developing it to find the most effective way to outcompete an industrial competitor. Using AI to find peaceful solutions to world conflicts, rather than to create thirty different marketing campaigns targeted at thirty different types of consumers. But of course, this will not happen, simply because applying AI to the crucial issues for our survival on the planet does not immediately produce the profit that it does when applied to reducing the costs of a television channel or a newspaper.

In the latest issue of the New Yorker, Cal Newport tried to explain why we shouldn’t worry about AI by delving a bit deeper into how it works. But, as much as he strives to prove to us that AI doesn’t create anything, and thus does not pose a problem to human intelligence, which is creative, these kinds of considerations, as we said, do not grasp the crux of the matter: like any technology, AI is not dangerous in itself, but is in the measure in which we humans misuse it and, if its use is regulated by market laws, we can be sure that it is, and will be, very dangerous. It will not be AI that harms us of its own accord, driven by its own autonomous desire for supremacy over humans: it will be us humans who harm ourselves using AI for the purpose of competing with each other in the most economically efficient way.

In other words, the AI/Capitalism pairing is potentially lethal. However, the paradox is that, without Capitalism, there is no AI (at least not in terms of common use).

All this resembles terribly the inevitability of a road already marked. However, my impression is that this time, as Hawking said, we are really playing with fire.

We have remembered the socio-political consequences of the advent of automation in the manufacturing sector on Western populations. What can be those related to the tertiary sector? Admitting that McKinsey was half right, we can expect that 400 million Westerners lose their jobs from now to seven years. We add this figure to the workers who have already lost it. We further add the millions who, as self-entrepreneurs, have ended up bankrupt or almost. Finally, we add all those who have seen their savings disappear into nothing between 2008 and 2010. We can expect a good slice of humanity that “does not make it to the end of the month” and that, easily replaceable by AI, does not have real prospects to succeed through Work. Simply because Work is no longer there.

In other words, what we risk is a world in which Work is no longer the basic foundation of society. But our societies are based on the assumption that Work is the tool through which citizens can fully participate in the life of the community. The Italian Constitution has it written in the First Article: “Italy is a democratic Republic, founded on Work.”

But the principle of the importance of Work informs all liberal democracies, starting with the American one. The American dream is nothing more than the expression of the principle according to which, thanks to Work, every human being can achieve what that nation considers first in its aspirations: the pursuit of happiness. Once the principle according to which the social order was established based on the right of birth fell, contemporary societies replaced it with belonging based on Work. We spent a hundred years convincing people that a life spent behind a desk, or behind a lathe, for eight hours a day, five or six days a week, was a life worth living. But it happens that there are fewer and fewer desks and lathes.

The problem also arises from an economic point of view: as an entrepreneur, I pay you as a worker because you can produce the goods and services that you will then buy with the proceeds of your work. If I, as an entrepreneur, no longer pay you as a worker, but use AI, with what money will you as a worker buy the goods and services produced by AI? And, if your full membership in society will no longer be guaranteed by your active participation in its productive life, what will it be based on?

From here the trend of the most advanced societies to think about things like guaranteed minimum income, whether one works or not. It is imagined to use the fiscal lever to redistribute resources. This certainly curbs the problem. But it does not seem destined to solve it: even assuming an unlikely wave of socialism in advanced economies, it is evident that sooner or later the balance point between the profit of the ever less and the subsistence of the ever more is not infinitely forward.

The question that AI poses to us today, therefore, transcends the subtle sense of unease that can be felt at the individual level. It transcends dystopian scenarios in which a malicious artificial intelligence reduces us to slavery. It instead presents us with a potentially epochal problem in systemic terms:

What does a capitalist society look like in which human Work is no longer the necessary pillar? What do we base the next Social Contract on?

This article was translated from the Italian by ChatGpT 4 in under ten minutes. It may not be perfect, but it seems pretty good to me. While cutting and pasting paragraphs to get them translated, me only being an imperfect human being, I once forgot to ask the AI to translate. It therefore assumed that I wanted to engage in a conversation with it. The following is ChatGpT 4 first reply to my argument:

ChatGpT4:

You have raised a series of very important issues concerning the impact of artificial intelligence (AI) on society and the economy. It’s true that capitalism has driven technological development, including AI, and this has had a significant impact on the workforce and the economy as a whole. When we talk about AI and work, we need to recognize that AI can automate some tasks, but it can also create new job opportunities that did not exist before.

However, AI raises a number of fundamental questions. In particular, if AI becomes predominant in many sectors, what happens to those people who have lost their jobs due to automation? How can society support those people who can no longer earn a living in the traditional way? This raises the issue of a guaranteed basic income, which might be one solution, but that has its own problems and challenges.

It’s important to note that AI is not an unstoppable and uncontrollable force. As a society, we have the power to guide and regulate the development and implementation of AI. This can include laws and regulations that protect workers, promote fairness, and prevent the misuse of AI.

In terms of a new social contract, a serious and wide-ranging dialogue will be necessary on how we want our society to develop in the future. We should consider how work, education, healthcare, social support, and other fundamental parts of society need to evolve in response to these new technologies.

AI can have a profound impact on society, but how we will use it and how we will address its effects is in our hands. It’s important that we start thinking about these issues now, so we can guide the development of AI in a way that is beneficial for all.

L’Ultimo Paradosso

Intelligenza Artificiale, Lavoro e Democrazie liberali

Tornate con la memoria agli anni della vostra infanzia. Quante volte siete caduti dalla bicicletta prima di imparare ad andarci senza incidenti? Quante volte avete battuto la testa contro lo spigolo di un tavolo, prima di imparare a non correre per casa? Quante volte vi siete scottati, tagliati, contusi prima di imparare a non toccare le cose “dei grandi”? Bene. Questo è il modo in cui funziona l’apprendimento degli esseri umani. Per padroneggiare una qualsiasi attività c’è bisogno di ripeterla un certo numero di volte commettendo ogni volta gli stessi errori. Questo è vero tanto per il bambino di tre anni che deve dare una quindicina di zuccate prima di imparare a stare lontano da quel benedetto tavolino, quanto per l’adolescente che deve ripetere le scale sul pianoforte qualche decina di volte prima di saperle eseguire alla perfezione, quanto per l’adulto che continua negli anni a riproporre il medesimo comportamento nevrotico, per cambiare il quale ha bisogno di molte ore di sedute di psicanalisi, se non di una gita ad un qualche Santuario.

Gli esseri umani apprendono lentamente, e solo grazie alla ripetizione degli stessi errori, finché (qualche volta) non ne diventano consapevoli. Ed anche la consapevolezza dell’errore non basta quasi mai, da sola, ad impedirci di commetterlo nuovamente. Chiedete a chi ha problemi di dipendenza.

Tutti abbiamo sentito la frase: “le trovo tutte io”, o “li trovo tutti io”. Ovviamente, in realtà, siamo noi che ci infiliamo volontariamente, più volte, nello stesso tipo di relazione insoddisfacente, a causa delle nostre nevrosi irrisolte. Non è che “le trovo tutte io.” E’ che “io cerco, e dunque trovo, lo stesso tipo di persona (o riproduco lo stesso tipo di situazione).”

Gli esseri umani possiedono un’altra caratteristica specifica: tendono a non occuparsi attivamente di nulla che non appaia pericoloso nell’immediato. Guardate la questione ambientale. Ormai quasi nessuno contesta il fatto che siamo alle soglie, se non già dentro, una rivoluzione dell’ambiente terrestre potenzialmente devastante per larga parte dell’Umanità. Eppure, nonostante il tanto parlare, nessuno, né a livello individuale, né a livello collettivo, si occupa realmente di fare qualcosa di decisivo in proposito. Se non siamo già con un piede nella fossa, noi umani continuiamo a camminare per forza d’inerzia, anche se siamo del tutto consapevoli della fossa che si spalanca a pochi metri da noi.

Dunque, gli umani imparano lentamente, e non si proteggono dalle catastrofi che possono prevedere, nonostante le possano prevedere, a meno di non trovarsi già ben oltre il punto di non ritorno.

Ebbene, l’Intelligenza Artificiale non funziona in questo modo. E’ progettata per imparare istantaneamente ed in modo incrementale dai propri errori, applicando quello che ha imparato al compito immediatamente successivo. E’ inoltre programmata per reagire in modo razionale ad una qualsiasi minaccia imminente, o prevedibile.

Ecco, dunque, la differenza di base fra intelligenza umana e quella artificiale: l’intelligenza umana è nevrotica e irrazionale, procede per “catastrofi” – cioè per evoluzioni inaspettate e repentine – , non per accrescimento progressivo e lineare delle informazioni: quella artificiale è invece razionale.

Nel corso dell’ultimo mese si è parlato molto di ChatGPT 4, sviluppato da Open AI, un modello molto avanzato di chatbot (cioè un software sviluppato per simulare conversazioni con gli esseri umani). Se ne è parlato perché è apparso improvvisamente evidente, a chi lo abbia provato, che il grado di evoluzione del software è tale da poter realisticamente immaginare che ChatGPT-4 ed i suoi successori potranno presto sostituire gran parte dei lavoratori umani in settori fino ad oggi considerati “protetti” dall’automazione. Quelli legati alle professioni di concetto. Giornalisti, copywriter, sceneggiatori, scrittori, praticanti legali, impiegati a vario titolo, analisti finanziari, insegnanti di diverse materie, grafici, designer, architetti, ricercatori, urbanisti, sviluppatori di software, bancari, assicuratori, esperti di marketing, pubblicitari … Tutte queste professioni, e molte altre che, nelle società capitalistiche avanzate, costituiscono il settore prevalente, cioè quello Terziario, possono già oggi essere in gran parte assorbite dalle intelligenze artificiali.

La velocità dello sviluppo dell’AI ha recentemente indotto mille stakeholders, capeggiati da Elon Musk, a pubblicare una petizione per chiedere una pausa di sei mesi nello sviluppo di questa tecnologia (potete leggerla qui: Musk). La lettera di Musk non serve a molto, se non a ripetere le preoccupazioni che l’imprenditore già nel 2015 aveva condiviso con il celebre fisico Stephen Hawking, che ci aveva avvertiti del fatto che, con l’Intelligenza Artificiale, stavamo giocando col fuoco. Ma, alla luce dell’introduzione di ChatGPT-4, la petizione di Musk assume la fisionomia di un grido di allarme. Il problema è che una moratoria non serve di per sé a nulla: cosa facciamo con i sei mesi di eventuale interruzione nello sviluppo? Se non li usiamo per stabilire nuove linee guida per lo studio di questi sistemi, fra sei mesi non sarà cambiato niente.

Sin dal 2017 la McKinsey ha cominciato a fare ricerca sull’impatto che l’AI avrà sul mercato del Lavoro. Nel primo rapporto (lo trovate qui: Mckinsey), si sostiene che, entro il 2030, potranno essere circa 800 milioni i posti di lavoro in qualche modo sostituiti o in qualche modo modificati grazie all’adozione dell’Intelligenza Artificiale. L’impressione generale è che, al fondo del problema, non vi sia l’Intelligenza Artificiale di per sé ma, al solito, vi siano gli esseri umani.

In un podcast sul tema uscito qualche giorno fa, il giornalista Ezra Klein, già editorialista del Washington Post e del New York Times, ha messo l’accento sul punto fondamentale (qui: Klein). Il punto è capire cosa vogliamo, come società, dall’Intelligenza Artificiale. Se lasciamo che il suo sviluppo sia guidato unicamente dal mercato, possiamo con ragionevole certezza immaginare che finirà per essere un serio problema per l’umanità. In altri termini si ripresenta la questione che da anni affligge le nostre società. Come fa un sistema politico debole a regolare ed a controllare un sistema economico forte?

In uno studio pubblicato a fine marzo di quest’anno, (qui: Hendrycks) L’analista Dan Hendrycks, direttore del Center for AI Safety di San Francisco, ha applicato il concetto di competizione darwiniana (cioè quello che più si avvicina al modello di sviluppo capitalistico) allo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale. Lo scenario proposto da Hendrycks è più o meno il seguente: man mano che l’AI si evolve, le multinazionali e gli Stati, naturalmente in competizione fra loro, la coinvolgeranno in scelte sempre più strategiche, perché l’AI può individuarle, velocemente, basandosi su analisi sempre più complesse dei costi/benefici e predire più scenari possibili derivanti da queste scelte.

Poiché tali decisioni sono appunto complesse, maggiore sarà la potenza e la velocità dell’AI minore sarà l’intervento umano nel prenderle. Se l’input dato all’AI è quello di trovare il modo di prevalere sul proprio competitor, l’AI darà risposte molto più veloci e precise di quanto non darebbero gli umani, basandosi su molti più dati e molte più possibilità d’azione. Se l’input è puramente e semplicemente quello di prevalere, nessuno può escludere che il modo più semplice e veloce di ottenere un successo sia quello di violare in qualche modo la legge. Naturalmente, l’ente regolatore può facilmente proibire all’utente dell’AI di dare input che prevedano di violare la legge.

Ma è molto facile aggirare questo tipo di regola: ad esempio non chiedendo direttamente di violare la legge, ma di trovare il modo di aggirarla. O di violarla senza farsi scoprire. Se per violare la legge senza farsi scoprire un imprenditore deve avere un’attitudine criminale ed una forte propensione al rischio, l’AI ha bisogno solo che qualcuno le chieda di farlo.  

Man mano che l’AI prenderà più decisioni e più complesse per noi, noi smetteremo di supervisionarla, semplicemente perché sarà inutile farlo. Ne consegue che, in mancanza di una qualche forma di regolamentazione, col tempo (parliamo di qualche anno, non di qualche decennio), le imprese che baseranno le proprie scelte strategiche sull’AI godranno di un vantaggio competitivo su quelle che non lo faranno. Hendrycks applica questa stessa logica agli Stati: quegli Stati che decideranno le proprie politiche basandosi sull’AI avranno un vantaggio competitivo rispetto a quelle che le baseranno sulla fallace, farraginosa discussione in seno ad un Parlamento, o di un Governo.

Ecco, dunque, un’altra importante differenza fra l’intelligenza umana e quella artificiale. L’intelligenza artificiale non ha preoccupazioni etiche, se non quelle delle quali l’umano decide di dotarla.

Ricapitolando: l’AI è molto più veloce, molto più capace di analizzare quantità immense di dati e trarne conclusioni, molto più veloce nell’imparare dai propri errori e molto più eticamente neutra di quanto non sia un essere umano.

Ora, regolare lo sviluppo della tecnologia è qualcosa che troviamo estremamente difficile. Il capitalismo basa la propria esistenza sul presupposto che sia necessario sviluppare una quantità sempre maggiore di beni e servizi al fine di produrre una ricchezza sempre crescente: da una trentina d’anni in qua, abbiamo scoperto che i beni ed i servizi tecnologici rispondono in modo naturale a questa esigenza di sviluppo a ciclo continuo. Infatti, investendo in “consumer technology”, il capitalismo è riuscito a convincerci del fatto che comprare un nuovo cellulare ogni anno abbia senso, molto più efficacemente di quanto non fosse riuscito a convincerci a cambiare più spesso auto o arredo della cucina.

Mettere un freno allo sviluppo della tecnologia nella nostra società sarebbe dunque oggi percepito come il tentativo di mettere un freno al capitalismo stesso. Sono almeno tre secoli che qualcuno protesta per l’avvento di una nuova tecnologia. Sinora si è constatato il fatto che, per ogni posto di lavoro perso a causa di un nuovo sviluppo tecnologico, se ne sono sempre creati tre, o quattro. Ovviamente questo genere di statistica non tiene conto del destino del singolo individuo che perde il posto. Ma se per ogni minatore inglese che ha perso il posto negli anni Ottanta, il “Blatcherism” ha creato cinque graphic designer, per l’economia nel suo complesso va bene così. O così hanno pensato in molti, almeno finché l’automazione ha colpito principalmente gli operai, i “blue collars” occidentali.

La minaccia che l’AI pone all’Occupazione non è né una novità, né una chimera: è l’ovvia conseguenza di un processo di sviluppo connaturato al Capitalismo coniugato con la tecnologia, che ha già cambiato la faccia sociale dei Paesi occidentali a partire dal settore manifatturiero e che ora sta per investire (sta già investendo) quello terziario.

Le conseguenze sociologiche e politiche di queste scelte economiche, che hanno coinciso con l’inizio dello sviluppo della consumer technology, sono state il tentativo di convincere ciascuno di noi a rinunciare all’idea del posto fisso per diventare “imprenditore di sé stesso”, da un lato, e la progressiva sfiducia nei confronti della politica, inadeguata a proteggerci dagli inevitabili rovesci dell’impresa di sé stessi, dall’altro. Sono ormai decenni che il Lavoro – come è stato inteso nel Novecento – non è più al centro dell’azione politica dei governi occidentali, siano essi di destra o di sinistra, se non come tema di campagna elettorale, da dimenticare il giorno dopo le elezioni.

Potremmo almeno rallentare questa tendenza se, come Società, domandassimo ai produttori di AI di determinare cosa vogliano ottenere da lei, cercando appunto di guidarne politicamente e culturalmente lo sviluppo. Applicare la potenza dell’AI per trovare una soluzione alla crisi climatica, invece di svilupparla per trovare il modo più efficace per prevalere su un competitor industriale. Usare l’AI per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti mondiali, invece che per creare trenta diverse campagne marketing targettizzate su trenta diverse tipologie di consumatori. Ma ovviamente questo non accadrà, per il semplice motivo che applicare l’AI alle questioni cruciali per la nostra sopravvivenza sul pianeta non produce, nell’immediato, il profitto che produce applicarla a ridurre i costi di un canale televisivo o di un giornale.

Nell’ultimo numero del New Yorker, Cal Newport ha cercato di spiegare perché non dovremmo preoccuparci dell’AI entrando un po’ più in dettaglio su come essa funziona (qui: Newport). Ma, per quanto egli si sforzi di dimostrarci che l’AI non crea nulla, e che dunque non pone un problema all’intelligenza umana, che è invece creativa, questo genere di considerazioni, come abbiamo detto, non coglie il nocciolo della questione: come ogni tecnologia l’AI non è pericolosa in sé, ma lo è nella misura in cui noi umani ne facciamo cattivo uso e, se il suo uso è regolato dalle leggi di mercato, possiamo stare certi che è, e sarà, molto pericolosa. Non sarà l’AI a farci del male di propria volontà, spinta da un suo autonomo desiderio di supremazia sugli umani: saremo noi umani a farci del male usando l’AI allo scopo di competere fra noi nel modo più economicamente efficace.

In altre parole, è il binomio AI/Capitalismo ad essere potenzialmente letale. Il paradosso è tuttavia che, senza Capitalismo, non esiste alcuna AI (almeno non in termini di uso comune).

Tutto questo somiglia terribilmente all’ineluttabilità di una strada già segnata. Tuttavia, la mia impressione è che questa volta, come diceva Hawking, stiamo davvero giocando col fuoco.

Abbiamo ricordato le conseguenze politico sociali dell’avvento dell’automazione nel settore manifatturiero sulle popolazioni occidentali. Quali possono essere quelle relative al settore del terziario? Ammettendo che McKinsey abbia avuto ragione a metà, possiamo aspettarci che 400 milioni di occidentali perdano il lavoro da qui a sette anni. Sommiamo questa cifra agli operai che lo hanno già perso. Sommiamo ulteriormente i milioni che, imprenditori di sé stessi, sono finiti in bancarotta o quasi. Aggiungiamo infine tutti quelli che hanno visto i propri risparmi scomparire nel nulla fra il 2008 ed il 2010. Possiamo aspettarci una bella fetta di umanità che “non arriva a fine mese” e che, facilmente sostituibile dall’AI, non ha reali prospettive di riuscirci attraverso il Lavoro. Semplicemente perché il Lavoro non c’è più.

In altre parole, quello che rischiamo è un mondo nel quale il Lavoro non sia più il fondamento di base della società. Ma le nostre società si fondano sul presupposto che il Lavoro sia lo strumento attraverso il quale i cittadini possano partecipare pienamente alla vita della comunità. La Costituzione italiana lo reca scritto nel Primo Articolo: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul Lavoro.”

Ma il principio dell’importanza del Lavoro informa tutte le democrazie liberali, a cominciare da quella americana. Il sogno americano non è altro che l’espressione del principio secondo il quale, grazie al Lavoro, ogni essere umano può conseguire ciò che quella nazione considera al primo posto nelle sue aspirazioni: la ricerca della felicità. Caduto il principio secondo il quale l’ordine sociale veniva stabilito in base al diritto di nascita, le società contemporanee lo hanno sostituito con l’appartenenza fondata sul Lavoro. Abbiamo impiegato un centinaio d’anni a convincere la gente che una vita passata dietro una scrivania, o dietro un tornio, per otto ore al giorno, cinque o sei giorni a settimana, fosse una vita degna d’essere vissuta. Ma accade che scrivanie e tornii siano sempre meno.

Il problema si presenta anche sotto il punto di vista economico: io imprenditore pago te lavoratore perché tu possa produrre i beni ed i servizi che poi acquisterai con i proventi del tuo lavoro. Se io imprenditore non pago più te lavoratore, ma uso l’AI, con quali soldi tu lavoratore comprerai i beni ed i servizi prodotti dall’AI? E, se la tua piena appartenenza alla società non sarà più garantita dalla tua partecipazione attiva alla sua vita produttiva, su cosa si baserà?

Di qui la tendenza delle società più avanzate a ragionare su cose come il reddito minimo garantito, che uno lavori o no. Si immagina di usare la leva fiscale per redistribuire le risorse. Questo certamente argina il problema. Ma non pare destinato a risolverlo: anche ammessa un’improbabile ondata di socialismo nelle economie avanzate, è evidente che prima o poi il punto d’equilibrio fra il profitto dei sempre meno e la sussistenza dei sempre più sarà raggiunto, e che non è spostabile in avanti in modo infinito.

La questione che ci pone l’AI oggi, dunque, travalica il sottile senso di inquietudine che si può provare a livello individuale. Travalica gli scenari distopici nei quali un’intelligenza artificiale malvagia ci riduce in schiavitù. Ci presenta invece un problema potenzialmente epocale in termini sistemici: Come si configura una società capitalistica della quale il Lavoro umano non sia più il necessario pilastro? Su cosa fondiamo il prossimo Patto Sociale?

Il Salto dei Lemming

Qualsiasi manuale di sceneggiatura consiglia di trarre spunto dalla realtà.

In effetti nessun arabesco della fantasia può eguagliare l’originalità, la drammaticità ed il peso degli eventi che si verificano a volte nel mondo reale. Il neorealismo è stato di una potenza dirompente perché ha indagato la realtà, dopo molti anni nei quali essa era stata edulcorata, mistificata, nascosta.

Del resto, chi avrebbe potuto inventare una storia coerente sul crollo del Muro di Berlino, se questo non si fosse verificato davvero?

Chi avrebbe potuto trovare credibile una scena nella quale il Papa, in una Piazza San Pietro frustata da una pioggerellina gelida insinuante, avesse pregato in perfetta solitudine, se questa non si fosse verificata davvero?

La realtà ci offre continui spunti narrativi.

Ma noi non li prendiamo più in considerazione.

Un padre ed un figlio tredicenne camminano in mezzo alla strada. Una bomba cade accanto a loro. Il ragazzo viene colpito a morte. Il padre tiene la mano del figlio fra le sue, mentre il giovane muore. Continua a tenerla dopo che è morto. La tiene ancora quando arrivano i soccorsi ed un telo di plastica viene steso sul cadavere. Dal telo fuoriesce solo la mano del ragazzo che il padre, sgomento, non riesce a lasciare andare. Il padre è seduto a terra accanto al figlio, e gli tiene la mano, mentre una donna cerca inutilmente di consolarlo. Lui guarda nel vuoto. Forse sta chiedendo spiegazioni a Qualcuno: spiegazioni su un evento inconcepibile. Ma comunque, sotto choc, non si decide a lasciare andare la mano del figlio.

È accaduto davvero, da qualche parte in Ucraina.

La scena nella quale Anna Magnani viene presa a fucilate mentre insegue il suo Francesco in “Roma Città Aperta” ha la forza della scena del padre che tiene la mano del figlio morto fra le sue. Infatti, essa prende spunto da un fatto reale, la vicenda di Teresa Gullace.

Ma, mentre su quell’episodio reale Rossellini ha costruito un capolavoro della storia del cinema mondiale, dubito fortemente che qualcuno faccia altrettanto con la scena del padre che tiene ostinatamente la mano del suo bambino morto.

Un vecchio articolo di Arthur Miller descrive come fosse la vita a New York quando non esisteva ancora l’aria condizionata. Nessuno scrittore avrebbe potuto inventare le scene descritte in quell’articolo. Infatti, nessun film, né classico, né contemporaneo, ci restituisce scene con folle composte da famiglie intere che, in biancheria intima, dormono nei parchi o sulle scale antincendio dei loro appartamenti di New York. Nessun film narra il fatto che i primi condizionatori d’aria dovessero essere riempiti d’acqua e che, a causa del fatto che lo scarico non era efficiente, dovevano poi essere rivolti verso il bagno piuttosto che verso la camera da letto. Immaginate una commedia romantica, o un giallo, che usasse questa caratteristica dei primi condizionatori come ispirazione per un meccanismo narrativo, o per una scena.  

Una delle scene più famose della storia del cinema è quella nella quale Marylin Monroe si ferma sulla grata della metropolitana per godere un po’ della corrente fresca che sale da sotto, sollevandole la gonna. Non so se l’autore della sceneggiatura avesse mai visto qualcuno fare altrettanto nella vita reale. Ma sicuramente Wilder e Axelrod ricordavano gli anni in cui gli americani facevano di tutto per trovare refrigerio, così come descritto da Miller nel suo articolo.  

Perché il cinema e la televisione mondiali, se si eccettuano i fatti di cronaca nera, non “pescano” più dalla realtà?

La spiegazione immediata: siamo ormai troppo imbevuti dalle immagini della realtà per prestarvi attenzione. La nostra immaginazione è affollata da miliardi di immagini e da milioni di storie. Troppe perché una qualsiasi di esse ci colpisca ormai davvero nel profondo. Ci siamo assuefatti alla rappresentazione incessante della realtà, che ci viene offerta senza la chiave di lettura della narrazione. Quando un giornale online pubblica il video di un’esplosione o di un fatto violento, come una rissa, in genere lo fa precedere da un cartello che avverte il lettore sensibile del contenuto scioccante. Ma poi, la visione non provoca alcuna emozione: sembrano tutte clip di film o serie nelle quali accadono episodi simili, con l’aggravante che, non essendo preparati, coreografati e girati professionalmente, sembrano spezzoni di opere di serie B.

Una spiegazione appena più evoluta: il mondo è diventato troppo complesso per cercare di decifrarlo grazie ad una storia che prenda spunto da un episodio reale per costruire un significato universale. Possiamo al massimo aspirare a cercare di decifrare una relazione di coppia, o un omicidio. 

Però in questo modo stiamo rinunciando alla ragion d’essere stessa della narrazione, compresa quella per immagini, che è appunto il tentativo di dipanare le tortuose vie del mondo attraverso la costruzione di una metafora, di un mito.

Il rifiutarsi di narrare la realtà produce l’effetto di condannarla velocemente all’oblio.

Due anni fa è accaduto un fatto senza precedenti nella Storia contemporanea, e del tutto inconcepibile dai canoni dell’invenzione narrativa pura, perché un racconto sulla pandemia sarebbe stato giudicato naïf nella sua implausibilità, se essa non si fosse verificata veramente.

Un mondo tutto teso a correre, a produrre, a crescere si è fermato di colpo. Spento. Finito. Chiuso. Da un giorno all’altro, per ordine di governi il cui potere sulla nostra vita quotidiana giudicavamo praticamente inesistente. Centinaia di milioni di persone chiuse in casa per giorni, settimane e mesi. Le attività produttive ferme. I commerci internazionali, mantra della globalizzazione, ridotti ai minimi termini. Crolli del PIL mondiale di 6, 7, 8 punti percentuali, accettati come inevitabili e riassorbibili in un mondo abituato a stracciarsi le vesti per un meno 0.1%. Il turismo mondiale annichilito.

Impossibile inventare il lockdown in una storia, se non ci fosse stato davvero. Nel senso che se non fosse avvenuto veramente sarebbe stato giudicato completamente irrealistico. A ripensarci oggi, infatti, sembra del tutto assurdo.

Le scene della realtà di quel periodo dalle quali prendere spunto per una narrazione sono innumerevoli.

Il già citato Papa solitario.

Gli aeroporti chiusi.

Manhattan deserta. Piccadilly Circus deserta. La Porta di Brandeburgo deserta. Piazza di Spagna deserta. Place De La Concorde deserta. Plaza Mayor deserta. La Piazza Rossa deserta. Piazza Tien An Men deserta.

I cancelli delle fabbriche sprangati.

I porti inattivi.

I treni fermi.

I negozi chiusi.

I cinema ed i teatri chiusi.

Gli animali selvatici che, grazie all’improvviso silenzio, si riprendono i centri cittadini ed attraversano lenti e tranquilli autostrade completamente prive di macchine.

Famiglie divise: figli impossibilitati a visitare genitori anziani.

Adolescenti chiusi in casa per decine di giorni.

Morti solitarie in ospedali gremiti.

Personale sanitario bardato come in un film di fantascienza.

Per settimane.

In tutto il mondo.

Una cosa epocale.

Una piaga biblica.

Eppure, che mi risulti, solo due opere “mainstream” hanno preso qualche spunto da questa realtà. La serie di Apple, The Morning Show. Ed, in senso metaforico, il film Don’t Look Up che, pur parlando di un meteorite, ragionava sul rapporto fra Scienza ed opinione pubblica nell’Era di Internet.

Ora immaginate: su Wikipedia ci sono 570 pagine di film sulla Seconda Guerra Mondiale, e ciascuna pagina contiene circa dieci titoli. I film sulla Seconda Guerra Mondiale sono migliaia.

Sull’arresto cardiaco del mondo in occasione del primo impatto del Covid 19 ci sono due opere audiovisive importanti, una delle quali ne parla solo in modo metaforico.

So per certo, e lo sanno tutti i colleghi, che l’industria del cinema e della televisione non desidera storie sul Covid. Si ritiene che il pubblico non voglia vederle, che preferisca rimuovere quello che è accaduto. I più raffinati fra gli operatori industriali dicono che non si deve parlare di Covid perché il Covid non è “una storia finita”.

Ma la vicenda della pandemia è senz’altro la storia reale più clamorosa che sia accaduta all’umanità, appunto, dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi.

Di cosa dovremmo mai parlare se non della esperienza più incredibile che abbiamo vissuto collettivamente da quando la maggior parte degli abitanti del pianeta è venuta al mondo?

Perché abbiamo così disperatamente voglia di rimuovere la realtà, anziché tentare di elaborarla, traendone spunto, per superarla? Perché la realtà ci spaventa al punto da dimenticarci di averla vissuta?

Pensateci: la maggior parte di noi pensa ormai al lockdown quasi come ad un sogno. Una specie di trip collettivo, come una sbornia improvvisa, scivolata via con la stessa velocità con la quale è arrivata. Eppure, è successo davvero.

Questa gigantesca opera di rimozione collettiva della realtà non riguarda solo il Covid. Riguarda tutta la realtà. Una volta che i media cambiano l’oggetto del loro interesse, improvvisamente tutti dimentichiamo, o ridimensioniamo fortemente, ciò di cui abbiamo parlato fino a quel momento, seguendo il flusso della conversazione globale su qualcosa di completamente nuovo. La guerra in Ucraina non è già più un argomento di conversazione da prima pagina. L’Afghanistan dopo la ritirata occidentale, ha cessato di esserlo molto presto. Il clima è un argomento abbastanza costante, ma sta lì come un rumore di sottofondo. Fino a pochi giorni fa si esclamava che le famiglie sotto la soglia di povertà in Italia sono aumentate in modo drammatico. Eppure, nemmeno io riesco più a ricordare il numero preciso. Gli esempi della nostra capacità di rimozione sono infiniti, non solo italiani e niente affatto confinati alle grandi questioni. Anche la vita quotidiana viene rimossa con la stessa facilità.

Qualcuno può pensare che tutto ciò sia voluto. Che sia interesse delle élites politico finanziarie globali continuare a “drogare” il pubblico affinché esso non si soffermi mai a riflettere su nulla per un tempo abbastanza lungo. Io, che non riesco a pensare in termini di complotti globali, penso che non vi sia un disegno specifico, ma che siamo tutti inseriti in un meccanismo per il quale la velocità del consumo di realtà risponde alle stesse regole alle quali risponde il consumo di qualsiasi altra cosa. Compriamo. Ogni giorno. Compulsivamente. E se smettiamo di comprare a ritmi vertiginosi, oggetti o concetti, e ci soffermiamo su ciò che abbiamo comprato, il meccanismo capitalistico si inceppa. Non è volontà di nessuno, è il modo in cui funziona il sistema socio-economico nel quale viviamo.

E tuttavia, il consumo frenetico della realtà, e la nostra mancanza di capacità di trarne storie che abbiano un significato, è qualcosa che ci obnubila sempre di più. Toccherebbe agli artisti, in particolare agli scrittori, agli sceneggiatori, ai drammaturghi ed ai poeti, trarre qualcosa di sensato dalla realtà. Ma noi abbiamo abdicato alla nostra funzione.

In mancanza di elaborazione della realtà, siamo dei lemming che corrono velocissimi verso il loro ultimo salto.

Chi Sono Questi Uomini?

Il documentario di Oliver Stone JFK Destiny Betrayed dura quattro ore. Il destino tradito è quello dell’America e, di conseguenza, quello del mondo. Un destino di Pace ed Equità. Almeno secondo Stone. Nei duecentoquaranta minuti di interviste, materiale di repertorio e voci narranti di Whoopy Goldberg e Donald Sutherland, viene dimostrato fino a che punto ciò che sappiamo sull’omicidio di Kennedy sia totalmente falso, molto più falso di quanto già dal giorno fatidico tanti cominciarono a sospettare.

Secondo il documentario il cervello del Presidente non è quello ritratto nelle fotografie conservate nell’Achivio di Stato. Il fucile agli atti come arma usata per sparare a Kennedy non è quello che Oswald comprò per posta, e che rappresenta una delle principali prove indiziarie a suo carico. Lo stesso Oswald non era al sesto piano dell’edificio dal quale avrebbe sparato, nel momento in cui avrebbe sparato.

La famosa “pallottola magica” che, secondo la ricostruzione ufficiale della Commissione Warren, avrebbe attraversato la base del collo di Kennedy, per poi finire nel corpo del Governatore Connolly, fratturandogli un polso ed incastrandosi infine nella sua coscia sinistra non è, comunque, la pallottola agli atti fra le prove.

Questa stessa “pallottola magica” fu registrata come prova un’ora e mezza prima che l’ufficiale che aveva il compito di farlo avesse modo di venire materialmente a conoscenza della sua esistenza.

Gerald Ford, membro della Commissione Warren e futuro Presidente degli Stati Uniti “spostò”, con un semplice tratto di penna, il foro d’entrata della seconda pallottola dall’altezza della scapola alla base del collo. Più tardi il foro fu spostato nuovamente, più o meno a metà strada fra scapola e collo, per poter sostenere in qualche modo la tesi dell’unico proiettile vagante ed accontentare tutti.

Almeno la metà delle fotografie scattate durante l’autopsia, anch’esse conservate negli Archivi di Stato, non è stata realizzata durante l’autopsia, e quelle che sono state riconosciute dai fotografi, sono state truccate.

Stone mette in fila quattro ore di dettagli incontestabili a dimostrazione del fatto che le conclusioni pubbliche tratte dalla Commissione Warren (la cui seduta finale non fu registrata per evitare di ammettere il dissenso di tre dei suoi membri) sono completamente montate, e che l’opinione pubblica è stata defraudata di qualsiasi possibilità di conoscere i fatti così come essi si sono realmente svolti.

Le ultime quindicimila pagine di documenti relativi al caso che, in base alla legge, avrebbero dovuto essere de secretate nel 2017, sono rimaste segrete per ordine di Donald Trump.

JFK Destiny Betrayed racconta come John Kennedy annoverasse nel Dipartimento di Stato di John Foster Dulles, nella CIA diretta da suo fratello Allen Dulles (che Kennedy licenziò e che poi fece parte della Commissione Warren) e nel Pentagono i suoi nemici più cari.

A partire dagli anni Cinquanta, infatti, il Senatore si era distinto per il sostegno attivo al processo di decolonizzazione in corso, fortemente inviso ai tre apparati, diventando amico di De Gaulle e sostenendolo nella sua idea di lasciare l’Algeria; di Dag Hammarskjold, il Segretario delle Nazioni Unite che morì in un incidente aereo mai del tutto chiarito; di Patrice Lumumba, il Presidente del Congo che fu assassinato, all’insaputa dello stesso Kennedy, ormai Presidente, dalla CIA; del Presidente indonesiano Sukarno, che fu destituito dal dittatore Suharto nel 1967; di Nasser al Cairo, con il quale Kennedy aveva concordato il sostegno ad un approccio più equanime nella contesa israelo-palestinese e, soprattutto, di Nikita Khrushchev a Mosca.

A proposito di comunisti, anziché combattere Castro in modo frontale, il Presidente stabilì con lui una sorta di accordo di non belligeranza, promettendo di lasciarlo in pace se egli avesse rinunciato ad esportare il Comunismo in America Latina promuovendo, nel contempo, l’Alleanza per il Progresso, un accordo di stampo social democratico di collaborazione economica con i Paesi del Sud America che, dopo l’omicidio, fu progressivamente de finanziato, fino ad essere definitivamente cancellato da Richard Nixon.

Kennedy si rifiutò per nove volte nel giro di un anno di firmare un Ordine Esecutivo che aprisse la strada ad un intervento militare diretto degli americani in Vietnam. Ma nel corso della lotta fra la Casa Bianca ed i suoi nemici interni, il Presidente ammise candidamente all’allora ministro delle finanze di Francia, Valery Giscard d’Estaing, di non avere il controllo del cento per cento degli apparati diplomatico militari del suo Paese.

Il National Security Memorandum Act 273, che portò “gli stivali americani” in Vietnam, fu firmato da Lyndon Johnson appena poche ore dopo la morte di Kennedy. Ma era stato preparato prima dell’attentato.

Sul fatto che vi sia stato un coinvolgimento diretto della CIA e dell’FBI nell’operatività e nel successivo cover up dell’omicidio non ci piove, ormai, più. Ma i possibili mandanti ammontano potenzialmente ad almeno un centinaio fra militari, servizi segreti di Stati stranieri, esuli cubani, mafiosi, diplomatici, lobbysti industriali, suprematisti bianchi e chi più ne ha più ne metta.

Sono personalità opache. Gente della quale si conosce poco. O, al contrario, gente famosissima che, oltre alla faccia pubblica, ne ha una privata, più interessante. Al di là dei fratelli Dulles e di qualche altro nome, sono pochi quelli significativi che sono venuti fuori.

Perché il Caso Kennedy è ancora così rilevante?

Perché, a parte la curiosità per i dettagli della cronaca nera, per i pezzi di cervello scomparsi, per le pallottole magiche, per Lee Oswald e Jack Ruby, per i fucili mai spediti, per i testimoni ignorati, per il film di Zapruder, eccetera eccetera, sostiene Stone, questo specifico delitto, oltre a destabilizzare l’America ed a cambiare la percezione che l’americano medio aveva del rapporto fra Stato e Cittadino, ha deviato il corso della Storia del mondo.

Dal documentario emerge infatti che Kennedy riteneva che il processo di decolonizzazione andava sostenuto non tanto e non solo perché contraddittorio rispetto agli “ideali americani”, quanto perché se, nella visione di Dipartimento di Stato, CIA e Pentagono il colonialismo costituiva l’unica possibilità per l’Europa di mantenersi economicamente, rimanendo quindi un valido baluardo contro l’Unione Sovietica, per il Presidente era necessario distendere i rapporti con l’URSS e ridimensionare il peso specifico dell’Europa nel mondo.

E’ noto che Kennedy e Khrushchev andavano d’accordo. Tanto d’accordo che uno dei testimoni nel documentario dichiara di aver appreso dalle labbra di un agente segreto coinvolto nelle indagini sull’omicidio, che Kennedy era “un traditore”. La definizione non viene rappresentata come la semplice opinione dell’agente segreto, ma come un fatto. Secondo questa persona esistevano prove concrete del fatto che Kennedy fosse un uomo dei russi.

Al di là della fondatezza o meno di questa affermazione, è in ogni caso chiaro che Kennedy e Khrushchev avevano intenzione di avviare una politica di sostegno alle aspirazioni indipendentiste e democratiche di tanti Paesi africani, asiatici e latino-americani che avrebbe marginalizzato il ruolo europeo, aprendo Africa, Asia ed America Latina ad un processo di modernizzazione generale del Terzo e del Secondo Mondo che ancora oggi fatica ad affermarsi. A tutto questo la Cina avrebbe contribuito con il suo millenario, proverbiale silenzio. In questo scenario, la Guerra Fredda avrebbe lasciato il posto ad una forma di cooperazione fra Stati Uniti ed Unione Sovietica che avrebbe effettivamente cambiato il mondo.

Certo: in prospettiva, siccome gli esseri umani sono quelli che sono, URSS e USA si sarebbero probabilmente limitati a spartirsi le ex colonie europee – così come hanno comunque fatto. Ma, forse, una diversa impostazione iniziale avrebbe impedito che questo processo fosse accompagnato da milioni di morti nei tre continenti.

Se la tesi di fondo del documentario di Stone ha una qualche attinenza con la realtà, questo significa che noi tutti siamo stati defraudati della possibilità di un mondo diverso. Che non significa, ripeto, necessariamente un mondo più giusto o privo di conflitti. Ma un mondo certamente diverso.

Nel 2017, come ricordato, all’ultimo minuto, Donald Trump, che fino al giorno prima aveva trionfalmente twittato che il velo di segretezza sul Caso Kennedy stava per cadere, il giorno dopo impedì che le ultime 15.000 pagine di documenti fossero rese pubbliche. Ne consegue che, a cinquantasei anni dai fatti, periodo nel quale certamente qualsiasi persona fosse direttamente coinvolta è passata a miglior vita, il Presidente Trump ha ritenuto che vi fosse ancora motivo di conservare il segreto di Stato.

A cinquantasei anni dai fatti la combinazione di interessi e strategie che ha deciso la morte di Kennedy ha ancora uomini in grado di dare ordini al Presidente degli Stati Uniti d’America e di rendersi opaca.

Chi sono questi uomini, oggi? Che legame hanno con quelli di ieri? Sono solo americani?

Vi avverto che non basta rispondere il Capitalismo, o il Gruppo Bilderberg o i Rettiliani. Questa è gente che ha un nome, un indirizzo ed una mail, dei conti in banca e dei figli a scuola. Varrebbe la pena di indagare. Possibilmente non su Facebook.

Woke

Personalmente, non ho mai pensato di voler cambiare il mondo.

L’idea non mi ha mai neppure sfiorato. Quando ero molto giovane, questo sì, speravo di riuscire a vivere in un mondo non completamente iniquo, e pensavo che la Politica fosse la disciplina nella quale impegnarsi per poter ridurre le troppe ingiustizie e contraddizioni del vivere sociale. Detto questo, non mi sono mai impegnato attivamente in Politica, se non molto brevemente qualche anno fa, e solo a livello locale. Per indole non sono uno che partecipa alle manifestazioni di piazza, nemmeno quando ne condivide le motivazioni. Attorno ai vent’anni mi avvicinai timidamente, per un po’, alla Pantera universitaria. Ma durò pochissimo. La vita mi sembrava improvvisamente diventata un susseguirsi ininterrotto di slogan e dogmi. Non sono mai stato un tipo da stadio.

Eppure, la pulsione a “cambiare il mondo” è connaturata a tutti gli esseri umani, almeno quanto quella a volerlo conservare così com’è.

Quando ero giovane, complici anche anni di relativa pace sociale e di crescita economica in Italia, i famosi anni Ottanta e Novanta, credevo che fosse possibile ottenere i miglioramenti necessari grazie al dialogo fra tutte le parti sociali. Una delle caratteristiche che credo di possedere è quella di riuscire, almeno in parte, a vedere le ragioni dei punti di vista diversi dal mio e, in genere, di riconoscere loro pari dignità. Questo è un pregio che quasi tutti rivendicano ma, naturalmente, è molto più raro di quanto non si voglia ammettere.

Non si tratta quasi mai, infatti, semplicemente di comprendere il punto di vista dell’altro, ma di empatizzare con esso. Di comprenderlo emotivamente. Questo è molto più difficile. La capacità di mettersi “al posto dell’altro” procura, infatti, non poche difficoltà: vedere davvero le ragioni degli altri significa mettere seriamente in discussione le proprie.

Pensavo tuttavia che, se si fosse riusciti in questo difficile esercizio, anche il sistema socio economico nel quale tutti viviamo fosse riformabile a piacimento. Da tempo, non lo credo più.

O meglio, non credo più che la Politica, intesa come competizione di idee e di programmi, sia una strada percorribile, qualora si voglia veramente cambiare. I meccanismi che legano la politica ufficiale agli interessi economici sono infatti troppo complessi e rodati perché li si possa sensibilmente modificare. Non parlo, qui, di corruzione: ma proprio dell’intreccio inestricabile fra interessi economici “legittimi”, a volte persino “strategici”, e azione politica. L’aumento esponenziale della comunicazione politica e l’esigenza, da parte di qualsiasi gruppo politico in una qualsiasi democrazia occidentale, di garantirsi continuamente il consenso nel breve termine, ha ulteriormente inibito la capacità della Politica di farsi portatrice di una qualsiasi idea veramente rivoluzionaria.

Ora. Essendosi la Politica rivelata insufficiente per “cambiare il mondo”, negli ultimi anni il cambiamento è passato attraverso battaglie di carattere culturale. Questo è abbastanza naturale. Movimenti come il Me Too, l’attivismo LGBTQ, il Black Lives Matter, l’ambientalismo di Greta Thunberg, la Cancel Culture, l’atteggiamento “Woke” in generale influenzano e dividono l’opinione pubblica molto più del dibattito politico in senso stretto.

Tutto questo dibattito è accolto, da parte delle persone, talvolta con favore, talaltra con fastidio. Il fatto che molti di questi temi vengano in genere sposati dalla Sinistra politica internazionale che, nel frattempo, sembra sorda, o comunque largamente inefficace nella propria missione di far fronte alle crescenti difficoltà economico sociali di strati sempre più ampi della popolazione occidentale, contribuisce di molto al fastidio. I temi woke vengono spesso infatti percepiti come la foglia di fico dei “radical chic”: i famosi comunisti col Rolex (che, presumibilmente, non sono gli stessi che mangiano i bambini) i quali pontificano sul modo in cui dovremmo vivere mentre dimenticano di occuparsi di rendere la fiscalità più progressiva, di distribuire la ricchezza in modo più equo, o lasciano che le grandi multinazionali sfruttino il nostro lavoro e la nostra credulità senza muovere un dito ed, anzi, sostenendole nell’impresa.

Un altro motivo di fastidio è che, nascendo gran parte di questi movimenti negli Stati Uniti d’America, nazione caratterizzata da ontologico estremismo, ed essendosi estesi al mondo anglosassone in generale, alcune delle novità che si cercano di introdurre appaiono assurde al senso comune.

Ricordo una cena con un produttore americano, un paio di anni fa, che mi raccontava che ad Hollywood era ormai considerato impensabile per un uomo tenere una qualsiasi riunione a porte chiuse con una donna. Le porte degli uffici dovevano restare sempre aperte. E’ di questi giorni la notizia che il senato accademico dell’Università di Oxford ha deciso di “decolonizzare” il programma della Facoltà di Musica, riducendo la centralità di Bach, Mozart e Beethoven e ragionando su modi woke di modificare la notazione musicale, ad oggi il linguaggio più universale che esista, originata dal lavoro del nostro Guido d’Arezzo. Pochi mesi fa, Channel 5 ha annunciato l’intenzione di produrre una serie nella quale Anna Bolena sarà interpretata da Jodie Turner-Smith, un’attrice nera. Sono ormai quasi quotidiane le polemiche sulla cancel culture che si esercita su monumenti, film o libri ritenuti portatori di valori incompatibili con l’esigenza di affermare l’eguaglianza di tutti gli esseri umani.

Gran parte delle persone che conosco storce il naso di fronte a quelle che considera posizioni estreme. Quando ho saputo che Anna Bolena sarebbe stata interpretata da una donna di colore, o quando ho sentito che l’importanza attribuita alla musica di Bach viene ritenuta responsabile del dominio culturale dell’Uomo Bianco… quando ho saputo che si volevano abbattere le statue di Cristoforo Colombo, o che non si può parlare di compensi professionali o di strategie aziendali con una donna dietro ad una porta chiusa…e molte altre volte, anche io ho storto il naso.

Però, forse mi sbagliavo.

Perché, infatti, al di là dei rancori e dei pregiudizi politici, queste tendenze culturali sono a volte così disperatamente esasperanti? Non è forse perché esse mettono profondamente in discussione il nostro modo di essere, la nostra cultura dominante? Perché mettono in discussione noi e ciò in cui ci riconosciamo? E come dovrebbe cambiare il mondo, se non attraverso un cambiamento del modo in cui noi lo vediamo?

Ricordiamoci: comprendere le ragioni degli altri non significa solo comprenderle razionalmente, ma soprattutto comprenderle emotivamente. Mettere in discussione le proprie. Questo è esattamente ciò che la cultura woke ci costringe a fare.

E, dunque, esaminiamo qualcuno di questi “estremismi”.

Un amico (nero), mi ha fatto notare ad esempio che le stesse persone che si scandalizzano per la scelta della Anna Bolena di colore sono quelle che accettano senza battere ciglio la rappresentazione di Gesù Cristo come di un bel ragazzo bianco, biondo e con gli occhi azzurri. Mi si dirà che nessuna persona sana di mente, fermandosi a riflettere per più di venti secondi sul fatto che Gesù fosse nato a dieci chilometri da Gerusalemme, possa ritenere credibile che egli potesse essere biondo e con gli occhi azzurri. E tuttavia, il punto cruciale è esattamente questo: nessuno si sofferma su questo pensiero per più di venti secondi. Lo si dà per scontato. Ciò che conta, infatti, non è la realtà, ma la rappresentazione che ne diamo, e chi ha il potere di imporre al mondo questa rappresentazione.

Il mondo accetta senza discutere che Gesù fosse bianco e biondo perché l’Occidente lo ha così rappresentato per due millenni. Ma questa rappresentazione serve indubbiamente per stabilire un modello egemonico. La Cristianità si è identificata per secoli con l’Occidente, è dunque Cristo è caucasico. E chi può negare che tale rappresentazione sia stata strumentale alla costruzione di una presunta superiorità morale degli occidentali nei confronti delle altre popolazioni del mondo?

I ritratti di Anna Bolena la dipingono come una donna bianca, ma se la rappresentiamo come nera per un tempo sufficientemente lungo, nessuno penserà più al fatto che fosse bianca. A pensarci bene, in via puramente teorica, poiché di Anna Bolena possediamo unicamente dei ritratti ad olio, non abbiamo neppure la certezza matematica che ella fosse bianca. Nemmeno giudicando dalla sua celebre figlia. Diamo semplicemente per scontato che le celebrità europee del passato fossero bianche. Nell’immaginario collettivo, abbiamo cancellato qualsiasi ipotesi diversa. Quante persone sanno, ad esempio, che Alexandre Dumas padre, l’autore de I Tre Moschettieri era di origini etniche miste, fra l’altro anche molto evidenti?  Che l’Imperatore romano Settimio Severo era “nero” (come testimoniano le monete auree che lo ritraggono con la moglie ed i figli, e sulle quali, diversamente dai loro, il suo volto è bronzeo)? Che Sant’Agostino era di etnia berbera?

L’iconoclastia è una brutta cosa, certamente. Eppure. Se un ragazzino nero nasce e cresce in un appartamento affacciato sulla statua di uno schiavista del passato, quale messaggio viene trasmesso al ragazzino, che lo introietta in modo inconscio? Che, dal momento che la statua non viene rimossa, la società nella quale egli è nato, vive e morirà, ritiene ancora oggi giusto celebrare uno schiavista. Può darsi che questa sia una lettura semplicistica: ma, ancora una volta, cerchiamo di empatizzare con il ragazzino. La prima volta che egli chiederà ai suoi genitori di chi sia la statua, essi gli racconteranno la storia di uno schiavista. Prima che il ragazzino arrivi ad un’età e ad un livello culturale sufficienti per farsi delle domande sulla opportunità, o meno, di abbattere le vestigia del passato, egli avrà assunto come dato di fatto che la statua non ha per lui e per i suoi avi lo stesso significato che ha per i bianchi. E che la società nel suo complesso è ancora felice di ribadire l’antico rapporto di potere.

Sulle occasioni professionali che il mondo offre alle donne un altro amico (maschio, bianco) mi ha fatto notare che il fatto che la vulgata politicamente corretta voglia oggi che le donne debbano ricoprire un certo numero predefinito di posti di responsabilità, tendenzialmente pari a quello degli uomini, a prescindere dalle loro competenze effettive, è un autogol per le donne ed uno svantaggio per la società in generale. La mancanza di competenze oggettive, infatti, non causerà che il loro fallimento e la conseguente inefficienza del sistema. Sarebbe molto giusto, se lo stesso discorso lo si facesse anche per gli uomini incompetenti, dei quali, grazie a Dio, non manchiamo. Un uomo incompetente non è “un uomo” incompetente, ma semplicemente un incompetente. Una donna incompetente, resta “una donna” incompetente. La sua incompetenza viene inconsciamente posta in relazione con il suo genere.

La musica di Bach è, per quanto mi riguarda, una delle espressioni più alte del genio umano in generale. E tuttavia, non esiste certo solo Bach. L’unico elemento che porta le persone come me ad arricciare il naso nel sentire la storia dell’Università di Oxford è il suo presupposto: non si vuole cercare di ristabilire un po’ di equità nella conoscenza del panorama mondiale, allargando gli orizzonti degli studenti con nuove informazioni. Ma si vuole con questo “punire” il povero Bach, che al panorama musicale mondiale non ha fatto che del bene. Eppure è incontestabile che l’Occidente abbia imposto la grandezza della propria arte al resto del mondo, e che il mondo, in termini generali, abbia finito con il far coincidere l’idea del capolavoro artistico con la sonata di Beethoven o con il quadro di Leonardo. Il fatto che esistano delle ragioni tecniche oggettive per definire alcune vette artistiche come universalmente eccezionali non intacca la verità di fondo che i criteri secondo i quali definiamo tali ragioni sono stati stabiliti da noi. Da noi maschi, bianchi, occidentali.

E dunque, siamo noi ad essere messi oggi in discussione. E’ evidente che questo ci fa paura. Il nostro inconscio si sente aggredito, e noi ci mettiamo sulla difensiva. Cerchiamo di opporre argomenti razionali. Polemizziamo. Combattiamo. Eppure, se ci sforzassimo di usare l’empatia come chiave di comprensione della realtà che muta attorno a noi, avremmo meno paura.    

Questo concetto l’ho trovato mirabilmente espresso da una persona intervistata qualche settimana fa da Piers Morgan su Good Morning Britain, programma dal quale il giornalista è stato più tardi cacciato per aver reagito in modo troppo rozzo all’intervista di Meghan Markle. Il tema dell’intervista (che posto qui: https://www.youtube.com/watch?v=S1pW6r9kjiw&t=23s ), tuttavia, non aveva a che fare con la famiglia reale britannica, ma con la scelta, operata dall’intervistata e dai suoi due partner, di crescere i loro due bambini in modo “gender neutral”. In parole povere, si tratta di non legare il genere sessuale anatomico all’identità e alla personalità dei bambini.

La persona intervistata ha dato ai figli dei nomi che non li connotano sessualmente, e si rivolge a loro evitando di usare i pronomi lei o lui ed usando il voi, come si faceva in certe epoche passate. Secondo lei, i bambini devono vivere in un mondo non connotato sessualmente fino a che essi o esse non raggiungono l’età nella quale cominciano spontaneamente ad interrogarsi su questi temi: a quel punto, devono essere lasciati liberi di scegliere a quale identità di genere appartenere, se ad una delle due, o ad entrambe, indipendentemente dalla condizione anatomica di partenza. Il fatto che Morgan sia molto aggressivo con la persona intervistata, e che quest’ultima si esprima al contrario in maniera perfettamente civile, calma e comprensibile, mi ha fatto istintivamente propendere per lei.

Morgan si richiamava al buon senso. Cioè, alle nostre consuetudini. Alle nostre sicurezze. Una creatura che nasce con un pene è un maschio. Una creatura che nasce con una vagina, è una femmina. Morgan è tanto moderno e generoso che concede loro il diritto di scegliere di assumere una diversa identità di genere, se lo desiderano. Ma ciò deve necessariamente avvenire in modo consapevole e doloroso, in un confronto dialettico con la Società, con “lacrime e sangue” insomma, poiché essi devono implicitamente assumersi la responsabilità di abbandonare un’identità predefinita dalla Natura. Si tratta ovviamente di una forzatura culturale: la Natura ti ha dato un pene. Tu sei dunque un Uomo. Se decidi di diventare una Donna, non potrai che farlo soffrendo psicologicamente la decisione.

Ma la Natura, fra le sue tante caratteristiche, non annovera quella di avere una posizione etica o morale.

La Natura non aggancia alcuna identità di genere al pene o alla vagina. Siamo noi che leghiamo l’identità e la psicologia delle persone a questi dettagli anatomici. Ed, a pensarci bene, all’alba del ventunesimo secolo, pene e vagina sono le ultime caratteristiche anatomiche alle quali la nostra Società lega ufficialmente un qualsiasi significato psicologico. Per quanto si possa essere razzisti, la Società non lega più ufficialmente il pigmento della pelle al dover essere delle persone. Non si pensa più che una persona dall’aria sinistra e con la gobba sia un serial killer. Non si afferma più ufficialmente che una persona di statura particolarmente bassa sia probabilmente megalomane, o che le belle donne bionde siano stupide.

E tuttavia, se uno ha un pene, egli ha di base una identità maschile. Se ha una vagina, ha una identità femminile.     

Indubbiamente, ad una prima istintiva valutazione, ho avuto difficoltà a “mettermi nei panni” della persona intervistata. E tuttavia, è solo così che il mondo può veramente cambiare. Il mondo cambia se ne cambiano i presupposti culturali più radicati e profondi. E non esiste presupposto più radicato e profondo di quello che alberga in noi stessi.

Non bisogna avere paura di questi cambiamenti, anche se si avverte istintivamente che si tratta di cambiamenti che ci mettono personalmente in discussione. Non bisogna resistere, nel tentativo di arginare il mondo che sembra scivolarci fra le dita. Bisogna lasciarsi andare, respirare a fondo, ed aggrapparsi alla certezza che il nostro cuore è un muscolo elastico: esso è capace di allargarsi abbastanza per contenere l’empatia necessaria per mettersi nei panni di tutti. Naturalmente, non è affatto detto che il cambiamento sia sempre meglio di ciò che c’era prima. Ma questo, è tutto un altro discorso.  

Tonnara di Passanti

Il 10 giugno del 1974 Pier Paolo Pasolini pubblicò sul Corriere della Sera un articolo, che troverete nella raccolta Scritti Corsari, dal titolo “Gli italiani non sono più quelli” (in Scritti Corsari, si intitola “Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia”).

Nell’articolo, Pasolini ragionava intorno alla vittoria del No al referendum sul divorzio, del 12 maggio di quello stesso anno, per concludere che tanto la Democrazia Cristiana quanto il Partito Comunista, uscito apparentemente vincente dal risultato, avessero in realtà entrambi abbondantemente perso. Perso nella loro capacità di comprendere gli italiani.

Egli sostenne, in quello come in altri articoli sul tema, che “i ceti medi sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali, ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non nominati) dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. E’ stato lo stesso Potere – attraverso lo “sviluppo” della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a creare tali valori (…)”

Secondo Pasolini, L’Italia aveva votato No alla legge abrogativa del divorzio non perché fosse socialmente progredita, ma perché era ormai sedotta da un atteggiamento edonistico che le faceva considerare con fastidio l’idea di assumersi un impegno a vita. Ancora Pasolini: “L’omologazione culturale che ne è derivata (dall’esplosione del consumismo ndr.) riguarda tutti (…). Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista ed un qualsiasi cittadino italiano antifascista.”

Dire queste cose nel 1974, nel bel mezzo degli Anni di Piombo, dovette apparire come estremamente eretico. Pasolini non era l’unico intellettuale italiano del suo tempo ad aver avvertito la immensa forza psicologica dell’“American way of life” e la sua capacità di penetrazione nella società italiana, e occidentale in generale. La letteratura (ad esempio Bianciardi con La Vita Agra) e, soprattutto il cinema, praticamente tutto il meglio della commedia all’italiana, avevano ormai da molto tempo, sin dai primissimi anni Sessanta, identificato il nocciolo del problema. Ma Pasolini aveva definito politicamente, in modo preciso, il percorso verso il quale l’Italia era destinata.

A quasi cinquant’anni di distanza da quell’articolo gli italiani (e gli occidentali) fra gli otto, dieci anni ed i novanta, di ogni condizione sociale, sono quasi perfettamente identici. Ciò che li rende identici sono i loro consumi, e le loro aspirazioni a consumare ciò che viene prodotto per loro, finendo per essere vissuto da loro come essenziale. Non c’è quasi differenza apprezzabile fra un ragazzo di venticinque anni ed un uomo di cinquantacinque. Hanno lo stesso smartphone. Frequentano gli stessi social. Vestono, tranne che per piccoli particolari, nello stesso modo. Guardano più o meno le stesse cose sulle piattaforme.

Nella omologazione culturale di massa la tecnologia ha avuto un ruolo cruciale, e non solo negli ultimi trent’anni, con l’avvento di Internet, ma sin dai primi anni del Novecento. Ma senza il marketing la tecnologia sarebbe rimasta essenzialmente un’esperienza da nerd. La dimostrazione di quanto Pasolini avesse ragione sull’aspirazione al disimpegno, all’estetica, alla joie de vivre del cittadino occidentale medio è l’immenso successo di Apple, che per prima si rese conto che, per massificare la tecnologia, essa andava resa non più potente e performante, ma semplicemente più sexy.

In uno dei suoi memorabili monologhi, nel presentare i Golden Globes dell’anno scorso, Ricky Gervais ha pregato le star di Hollywood di astenersi dal fare discorsi di ringraziamento “politici”, non avendone essi secondo lui alcun titolo. “Quest’anno Apple è entrata alla grande nel mondo della televisione, producendo The Morning Show, una serie eccezionale sulla dignità e sul “fare la cosa giusta”, prodotta da un’azienda che sfrutta i lavoratori in Cina (…) Beh, voi dite che siete woke, ma le aziende per le quali lavorate… incredibile… Apple, Amazon, Disney…se l’Isis creasse un servizio streaming, voi chiamereste il vostro agente!” (mia traduzione). Per la cronaca, Tim Cook era presente in sala, così come i rappresentanti delle altre aziende citate.

Perché Gervais può dire queste cose in mondovisione, in faccia alle persone che insulta, ottenendone in cambio un grande applauso? Perché esse sono perfettamente vere. E non importa nulla a nessuno che lo siano: ne siamo tutti consapevoli. Noi tutti vogliamo i prodotti perché ci sono presentati come seducenti e, sostanzialmente, non ha alcuna importanza per noi il modo in cui essi ci vengono procurati.

In questo senso, proprio come aveva sostenuto Pasolini, non c’è oggi alcuna differenza fra un fascista e un comunista, fra un razzista e un antirazzista, fra un uomo e una donna, fra un bianco e un nero, fra un bambino e un adulto: siamo tutti, semplicemente, consumatori. Si tratta oggi di un’ovvietà, sia pure non sufficientemente ribadita, e soprattutto, non considerata appieno nelle sue conseguenze.

Cosa significa, infatti, essere tutti consumatori? Per prima cosa significa che non siamo più tutti cittadini. Abbiamo cioè smarrito la consapevolezza di avere dei diritti e dei doveri politici, prima che dei diritti socioeconomici, ed un obbligo politico verso i nostri discendenti. Il discorso pubblico attorno alla direzione che la nostra città, o il nostro Paese, o il nostro pianeta dovrebbe prendere nel lungo periodo è psicologicamente subalterno al soddisfacimento dei nostri desideri nel breve periodo.

Non siamo in grado di progettare perché non siamo in grado di superare il desiderio immediato di consumare. Quella insofferenza nei confronti dell’impegno che Pasolini identificava come la prima e principale causa della vittoria del No al Referendum del ’74 è la stessa insofferenza che ci impedisce di prendere sul serio i problemi ambientali del pianeta, e di agire di conseguenza, come collettività. Non esiste alcun progetto, di nessun tipo, che non proceda per tappe, il che contrasta violentemente con la voracità del nostro consumismo psicologico.

I limiti che ci sono stati imposti dalla pandemia sono stati vissuti dalla maggior parte di noi come fortemente invalidanti. Al di là delle discordanti opinioni intorno alla loro opportunità nella specifica occasione, ed ovviamente al di là dei loro effetti sul Lavoro, questo atteggiamento di generale fastidio dice molto della nostra Società. Molti di noi chiamano Libertà quella che, in fondo è, psicologicamente, semplicemente Insofferenza ai limiti, quale che sia il motivo per cui essi ci vengano imposti.

La difficoltà di accettare i limiti imposti dalla realtà è particolarmente evidente nei giovani di questa generazione. Non c’è genitore che non guardi con preoccupazione alla difficoltà crescente con la quale si cerca di imporre loro dei limiti all’uso dei social, o dei videogiochi, o delle droghe. Naturalmente, è la nostra mancanza di limiti che determina quella nei giovani.

Ogni volta che, senza che un oggetto di consumo si sia rotto, noi adulti ne compriamo un modello più recente, dimostriamo, nei fatti e nei comportamenti, e non nelle belle parole, ai giovani che, nella nostra società, la bulimia è consentita, ed anzi esaltata. La scomparsa dei “riparatori”, dei rammendi, dell’uso di accomodare gli oggetti nel nostro quotidiano è la rappresentazione plastica della nostra incapacità, come adulti, di porci dei limiti. Il successo di piattaforme di streaming che propongono centinaia di film e serie che nessuno di noi avrà mai tempo di vedere, e che ci mettono ogni sera, in particolare in epoca di pandemia e di coprifuoco, di fronte ad una scelta tanto vasta quanto assurda (lo dico da addetto ai lavori e, nel mio piccolo, da “contributore” del sistema) è una conferma quotidiana della nostra nevrosi bulimica. Gli esempi delle nostre contraddizioni agli occhi dei giovani, che non sanno verbalizzarle ma che le assumono psicologicamente, e che dunque che non possono difendersene, sono infiniti. Appunto, senza limiti.

Nessuno di noi è in grado, nell’ambiente in cui viviamo, di adottare, rispetto ad esso, comportamenti ascetici. Certamente non lo sono io. L’ambiente è ovviamente più forte del singolo. Ma è fin troppo evidente che la nevrosi sistemica della quale ognuno di noi è vittima produce conseguenze dannose sulla psiche dei giovani. La migliore definizione di Realtà che mi viene in mente, infatti, è quella di “dominio (nel senso di regno) dei limiti”. Dei propri, innanzitutto.

I giovani hanno bisogno di conoscere sé stessi, e la conoscenza di sé stessi avviene nel confronto con i limiti: l’assenza della percezione di essi comporta l’alta probabilità di precipitare in un delirio d’onnipotenza, accoppiato ad una violenta nevrosi di scacco, quando il confronto diventa inevitabile, ed al fallimento. L’alternanza fra sensazione di onnipotenza e fallimento crea una gioventù nella quale i disturbi schizo-affettivi sono immensamente più frequenti di quanto non fossero in passato.

La tonnara di passanti del titolo si riferisce dunque ai giovani ed ai giovanissimi. Sono loro i passanti che, con la nostra adesione ormai completa ed introiettata al conformismo consumistico del quale parlava Pasolini, noi “uccidiamo”. L’assioma secondo il quale bisogna “uccidere” il Padre per poter crescere è oggi rovesciato: il Padre “uccide” i Figli per poter continuare a cullarsi nell’illusione di un Tempo infinitamente protratto, nel quale il suo Desiderio possa essere infinitamente soddisfatto. Il trucco nel quale il “Potere” è riuscito meglio è stato quello di liberarci dalla consapevolezza dell’esistenza della Morte, cioè del Tempo.

Se solo saremo in grado di permetterci un’adeguata plastica facciale, noi non moriremo mai, ma cristallizzeremo la nostra vita in un eterno Presente, nel quale rifletterci all’infinito, come nello specchio d’acqua di Narciso.

Draghi. Il Politico.

E così si farà il governo Draghi. A giudicare dall’aria che si respira, si tratta di un governo che gode, in partenza, dell’approvazione di una maggioranza ampia di elettori. Se cerco di mettermi nei loro panni, la ragione di tanto sostegno popolare (Salvini è stato applaudito in un supermercato Conad di Firenze perché ha detto che lo sosterrà) è, a mio avviso, ovvia.

Le statistiche dicono che, quando si alzerà il velo che ha congelato il mondo del lavoro in quest’ultimo anno, i nuovi disoccupati saranno fra i 350.000 ed i 500.000. I pessimisti (come me) pensano che saranno molti di più. La cifra non tiene poi conto di tutti quelli le cui piccole e medie imprese saranno fallite. E’ plausibile, visto che ciascun disoccupato/imprenditore che ha chiuso ha mediamente una famiglia, che le persone in forte crisi (crisi di sussistenza) saranno alcuni milioni. Ancora, in un Paese che si regge sul nero, non sappiamo poi quanta altra gente avrà seri problemi di sussistenza a causa di questa immensa crisi. Semplicemente, gli elettori non ritengono che le forze politiche in Parlamento siano, da sole, in grado di fronteggiare una crisi epocale di queste dimensioni.

La percezione comune è che, al di là dei propri meriti e demeriti personali, Mario Draghi goda del prestigio, della capacità e dei contatti necessari per provare, almeno, ad evitare la catastrofe. Tutto il resto, compresa la pandemia, è secondario rispetto all’esigenza assoluta di porre un freno immediato alla deriva violentissima dell’economia reale.

Cosa implica l’arrivo di uno come Mario Draghi alla guida di un governo? Cominciamo col dire che questo non sarà un governo “lacrime e sangue” alla Monti. Non vedo perché dovrebbe esserlo. Monti arrivò sull’onda di una crisi del debito. Draghi arriva per spendere duecento-nove miliardi di Euro. Monti doveva chiudere. Draghi deve aprire. Personalmente mi aspetto anzi che, nel breve periodo, Draghi metterà in campo nuovi ammortizzatori sociali. Questo non significa che il suo sarà un governo particolarmente progressista, né che l’ammortizzazione sociale lo segnerà fortemente. Semplicemente, la mia impressione, se volete la mia speranza, è che in una prima fase, Draghi butterà molta acqua sul tanto fuoco che sta per manifestarsi.

E poi? Cosa altro implica? Molti, in questi giorni, si sono concentrati sul passato di Draghi per metterci sull’avviso rispetto al suo DNA di alfiere internazionale della grande finanza e dell’euroligarchia (Yanis Varoufakis fra tutti: https://www.newstatesman.com/politics/economy/2021/02/europe-isn-t-working). Il discorso intorno alla figura ed al carro al quale è attaccato il professore, tuttavia, non mi appassiona. Do per scontato che uno con il suo curriculum professionale abbia anche una forma mentis ed un’agenda politica che certo non esalterà i fautori del socialismo.

D’altra parte, non sono fra coloro i quali leggono in ogni mossa di Draghi un’azione a sostegno degli oscuri interessi delle élite della finanza mondiale. Per come la vedo io, Draghi ha sempre fatto nel modo migliore possibile, talvolta nell’unico modo possibile, il lavoro che, di volta in volta, gli è stato affidato dal proprio datore di lavoro: lo Stato italiano, Goldman Sachs, la Bce.

E certo che, spesso, queste azioni sono state più positive per le élite finanziarie di quanto non lo siano state per le popolazioni. Ma questo è determinato dal Sistema nel quale viviamo: non dalla cattiveria o dalla disonestà personale di Draghi. Sarà meglio ricordarci tutti del fatto che viviamo in un mondo capitalistico, nel quale la finanza ha sostituito, negli interessi delle élite, l’economia reale. Le grandi aziende investono i loro profitti nell’acquisto delle loro stesse azioni, allo scopo di aumentarne il valore. E’ così che moltiplicano i guadagni, pur licenziando i dipendenti e riducendo la produzione.  

Ma, per quanto mi renda conto che ciò sia opinabile, ritengo che la famosa “salvezza” dell’Eurozona grazie all’altrettanto famoso “whatever it takes”, sia stata soprattutto un bene per le popolazioni europee. Quelli che dicono che il quantitative easing ha salvato le banche dimenticano che le banche sono piene dei soldi dei risparmiatori.

L’arrivo di Draghi apre però due questioni politiche. La prima è il famoso dibattito sui “competenti” in Politica, il secondo quello dello “sdoganamento” della Lega come forza credibile e affidabile agli occhi dell’Europa e del resto del mondo.

E’ noto che la nostra classe politica, ma direi più o meno la classe politica occidentale in generale, soffre da molti anni di una cronica insufficienza nel proprio processo di selezione. Nel nostro Paese, questa mancanza ha cominciato a manifestarsi con il berlusconismo. Forse c’è persino un momento preciso nel quale quel mondo è improvvisamente cambiato: il faccia a faccia televisivo fra Berlusconi e Occhetto, officiato da Mentana, nel 1994. La famosa storia della giacca marrone del segretario dei “post comunisti”.

Il povero Akel avrebbe anche potuto essere Churchill: in quell’istante fu chiaro a tutti che la politica come dibattito di idee (forse anche perché in quel caso le idee non erano stupefacenti, sebbene migliori di quelle suggerite da Berlusconi) era finita, e che cominciava quella dello spettacolo. Un altro divo del palcoscenico come il primo Bossi trascinò con sé e con i suoi celti di Brembate quello che restava della politica delle idee.

La tendenza è andata crescendo negli anni, esplodendo definitivamente con i social network. La brevità dei messaggi favorisce la creazione di slogan a getto continuo. La sensazione di essere tutti sullo stesso piano demolisce l’aura di rispettosa distanza della quale una volta i politici erano circondati. Oggi un discorso come quello sulle “convergenze parallele” non potrebbe nemmeno essere concepito da un politico: figurarsi se possa essere pronunciato. I politici non vanno più nemmeno a caccia di sondaggi, ma di Like su Facebook. Figli, in questo senso, del berlusconismo e del primo leghismo, i 5 Stelle sono poi venuti a completare la distruzione dell’idea per la quale uno che fa politica debba avere delle competenze.

Ma quali competenze? Il discorso sui competenti ha preso una deriva sciocca ed elitista. Io ho bisogno di un competente per rifarmi i denti, non per decidere se debba o meno fare parte dell’Eurozona. Per questa seconda scelta ho bisogno di cultura, non di competenza.

Le competenze delle quali ha bisogno la politica sono competenze culturali, non disciplinari. Farebbe bene un politico a conoscere la Storia. La Filosofia e la Filosofia Politica. L’Economia e la Storia Economica. Le Arti, tutte. La Filosofia e la Storia del Diritto. La Matematica, intesa nel suo senso filosofico. Il politico non ha alcun bisogno di conoscere i dettagli delle singole discipline: per quelli ci sono, appunto, i competenti. I tecnici. Il politico deve avere un progetto politico, non un progetto manageriale.

La differenza è molto semplice: il politico è un visionario. Uno, o una, che abbia un punto di vista complessivo, non specialistico ma generale, della società e di dove pensi di condurla. Se Draghi sia in questo senso un tecnico o un politico lo scopriremo fra poco: di certo alimenta il sospetto di avere almeno una vaga idea di chi fosse Shakespeare.

La cultura non la si ottiene solo grazie ad un percorso standard, fatto di scuola e università. E un patrimonio a disposizione di tutti. In questo senso, il più democratico che esista. Ma non averla, e non cercarla, non è sinonimo di democraticità. E’ sinonimo di superficialità. Una cosa è non avere cultura, molto diverso è teorizzare che la mancanza di cultura sia un tratto rivoluzionario, popolare e democratico. Non c’è niente di democratico in un politico che non sappia mettere due parole in fila. E questo non ha nulla a che fare con i “competenti” in politica.

Negli ultimi trent’anni i partiti politici hanno, per mille motivi, svillaneggiato non la competenza, ma la cultura, portando in Parlamento gente che non sa nulla di nulla, non gente incompetente in questa o quella materia specifica.

C’è poi la questione della Lega. La Lega è il più vecchio partito in Parlamento. Ha cambiato anima diverse volte. Da secessionista è diventata nazionalista. Da pagana è diventata cattolicissima (ricordate il Sacro Cuore di Maria?). Da antieuropeista è diventata, pare, convintamente europeista. Ovviamente non ha mai cambiato nulla.

Essa rappresenta e rappresentava quella parte della cittadinanza che si riconosce in un piglio pragmatista, che bada al “buon senso”, che difende i propri interessi con le unghie e con i denti, anche quando i propri interessi sono contrari al “buon senso”, che a parole detesta la corruzione, finché non ha personalmente l’occasione che rende l’uomo ladro. Allora, si media, si fanno i distinguo. Ironicamente, se c’è un partito che rappresenta perfettamente i vizi dell’italiano dell’icona romana per eccellenza, Alberto Sordi, quel partito è la Lega.

Ora, si dà il caso (ma appunto, non è un caso, ma la naturale conseguenza della sua essenza “sordiana”) che la Lega sia, nei sondaggi, primo partito in Italia. E’ chiaro che, se si andasse a votare, la Lega vincerebbe le elezioni. Ma rimarrebbe, nel suo DNA, quel sovranismo del quale è portatrice, quel germe potenzialmente disgregatore dell’Unione Europea. Un governo di centro destra, con la Lega e Fratelli d’Italia a tirare, è un governo che l’Europa non accetterà mai. La UE non può permettersi un’altra Brexit.

Perché, al di là delle convenienze economiche delle élite finanziarie, la UE esiste per un unico, e sacrosanto motivo: per regolare senza spargimenti di sangue, e dopo due guerre mondiali, la millenaria questione della supremazia sul continente, contesa da mondo germanofono e mondo francofono all’interno di un’alleanza cementata dagli interessi economici. Questo è ciò che i detrattori della UE non capiscono: l’Unione Europea non esiste per preservarci dai pericoli esterni, o per permettere ai suoi oligarghi di prosperare. E’ nata ed esiste per proteggerci da noi stessi e dalla nostra Storia.

Per inciso, non credo che la Lega promuoverebbe mai sul serio un’Italexit. Così come i personaggi di Sordi non si sarebbero mai affrancati da quel sistema che essi condannavano ogni cinque minuti, ma che dava loro da mangiare. Purtroppo, questo gli altri europei non potranno mai capirlo fino in fondo.

La UE sa che non è più possibile rimandare l’appuntamento con Salvini: gli elettori italiani non vedono l’ora di votarlo. E allora, sembra abbastanza chiaro che lo scopo più prettamente politico del governo Draghi è quello di fare da balia ad un futuro governo Salvini, mondato del proprio peccato originale grazie ad un periodo di quarantena sotto la sua guida.

Dunque, non potendo più far nulla per evitarlo, la UE “aiuta” Salvini ad entrare lavandosi per bene le mani, facendogli scuola, prima di affidargli la guida della seconda economia manifatturiera d’Europa. Questa è, a mio avviso, la funzione storica del Governo Draghi, dal punto di vista politico. Ancora una volta, Draghi farà il lavoro per il quale viene assunto.

In questo gioco, il PD conserverà il posto che si è guadagnato in questi anni. Cioè quello di una forza secondaria che non riesce a fare un salto di qualità, ma che non riesce a morire grazie alla persistenza in Italia di una significativa minoranza di (centro) sinistra. I 5 Stelle, al contrario, rischiano l’estinzione. Non saranno “competenti”, ma i loro elettori non sono camaleontici come quelli leghisti. Forse Di Battista farà un suo partito di nostalgici, o si prenderà i transfughi del governo Draghi, quando egli (continuando a fare da garante a Salvini per qualche altro anno) sorveglierà il gioco dal Colle. Se tutto questo ha un senso, il governo Draghi sarà molto politico.

Forse il più politico da molti anni a questa parte.

I Soviet della Finanza

In questi ultimi giorni sono successe diverse cose interessanti, alcune delle quali possono significare molto più di quello che al momento sospettiamo. La crisi di governo in Italia è più interessante di quanto possa sembrare limitandosi ad ascoltare il chiacchiericcio dei talk show. Ma riguarderà solo noi italiani.

Le rivolte a favore di Naval’nyj e la loro repressione potrebbero avere conseguenze più estese, come ad esempio difficoltà ulteriori nei rapporti fra Russia e Germania con riguardo al North Stream 2, il gasdotto che trasporta il gas dalla Russia all’Europa attraverso il Baltico. Anche questa storia, però, riguarda un numero relativamente limitato di persone: gli europei.

Ma c’è un’altra storia, e che riguarda tutti. E tutti, in questo caso, significa tutti gli abitanti del pianeta. E’ quello che è accaduto al titolo di borsa della catena di negozi di video giochi, Game Stop (GME).

Nel parlarne, non cercherò di millantare conoscenze approfondite dei meccanismi della finanza, che non possiedo. Non ho mai giocato in Borsa in vita mia. Lo trovo anzi un mondo piuttosto noioso. Se volete approfondire i tecnicismi di quanto è accaduto ci sono molti articoli che vi aiuteranno a capire meglio. Qui ne allego tre: https://www.nytimes.com/2021/02/01/podcasts/the-daily/gamestop-stock-robinhood-reddit.html?searchResultPosition=1&showTranscript=1; https://www.bbc.com/news/av/technology-55864312; https://www.hdblog.it/games/articoli/n533001/assurda-storia-gamestop-community-reddit-fondi/?fbclid=IwAR3nUMZGoUGI9pd1OrN08V80BmhPeQadzuIKl4t6wO2prUKpXVsB0oA5PjI .

Per riassumere, l’affare Game Stop ha visto una contrapposizione netta, diciamo pure una guerra, fra i cosiddetti “little guys & gals”, la gente come me e voi, e gli investitori istituzionali, i famosi Hedge Funds, che gestiscono professionalmente miliardi di dollari. In questa guerra, per il momento, gli investitori istituzionali stanno perdendo anche se, nelle ultime ore la situazione si sta lentamente riequilibrando. Alcuni hanno già consolidato le perdite e sono andati a leccarsi le ferite mollando la contesa. Altri stanno cercando di resistere. Ma parliamo di perdite, e di guadagni, da una parte e dall’altra, miliardari.

Il modo in cui questi guadagni e queste perdite si sono realizzati, al netto dei tecnicismi, è in fondo quello consueto: tutto ciò che si fa in Borsa, alla fine, è comprare e vendere. Se compri a poco e vendi a tanto, guadagni. Se compri a tanto e vendi a poco, perdi. Per complicare lievemente il gioco e renderlo meno noioso, alcune di queste azioni di acquisto e di vendita possono essere realizzate su ipotesi di prezzi futuri, ed è questo il caso di Game Stop.

In pratica, quando si presume che un titolo perderà di valore, esiste la possibilità di farsene prestare le azioni vendendole al prezzo corrente e ricomprandole più avanti a quello più basso, guadagnando la differenza. Vendo un titolo, senza averlo materialmente, a 100, lo ricompro a 50, restituisco il titolo al prestatore e intasco i 50 di differenza, tolti i costi dell’operazione. Se non avete capito come sia possibile vendere ciò che non si possiede realmente, non ha importanza. E’ un’altra delle astratte costruzioni che compongono il nostro macro sistema economico, e che hanno tuttavia conseguenze reali sulla vita delle persone.  

Scopo del gioco, in sostanza, resta comunque sempre quello: in Borsa non devi mai restare con il cerino in mano. In questo frangente, il cerino sembra rimasto nelle mani degli Hedge Funds.

Negli ultimi lustri, gli Hedge Funds hanno fatto pressione costante perché questa, ed altri generi di “scommesse” sull’andamento futuro dei prezzi di un titolo, di una divisa monetaria o di una commodity potessero essere il più possibile deregolamentate. I loro sforzi sono stati premiati da una deregulation sempre più massiccia, che si è tradotta in guadagni miliardari per loro ed in perdite altrettanto miliardarie per i piccoli risparmiatori.

Quando un fondo decide di puntare sul ribasso di un titolo, infatti, l’immenso investimento che ciò comporta spesso manda sul lastrico i piccoli risparmiatori e/o i dipendenti delle aziende coinvolte nell’operazione, ai quali magari è stato offerto di essere pagati in azioni, e che vedono così i propri risparmi volatilizzarsi in un tempo troppo breve perché essi possano proteggersi. Ciò è, ad esempio, quanto accadde ai dipendenti della Enron, i cui titoli persero il 99% del loro valore nel giro di pochissimi giorni, se non di ore.

Nel caso di GME è accaduto che, avendo i fondi deciso di puntare sul calo del suo valore, una massa di piccoli risparmiatori si sia accordata su di un social network per comprare titoli dell’azienda, impedendo al prezzo di calare, portandolo anzi molto in alto, e mettendo così gli investitori istituzionali (che avevano venduto a 100 con la previsione di ricomprare a 50 e si sono ritrovati obbligati potenzialmente a ricomprare al nuovo prezzo di 1500) in gravissima difficoltà.

Mentre il mondo della Finanza ha urlato allo scandalo, il resto del mondo ha comprensibilmente salutato tutta questa storia come la vendetta dei piccoli risparmiatori nei confronti dei grandi speculatori, alcuni dei quali stavolta si sono fatti molto male. Molti osservatori hanno immaginato che questo sia l’inizio di un’era in cui la gente comune, grazie ai social ed alle app per giocare in borsa, potrà difendere le aziende alle quali tiene contro le scommesse al ribasso dei grandi investitori. Un evento simile a quello di GME si è infatti verificato su scala minore con la catena di sale cinematografiche AMC, difesa dai piccoli risparmiatori.

E’ questa dunque la nascita di un mondo finanziariamente più equo? Siamo in presenza di una rivoluzione dal basso fatta da gente che, liberatasi del timore reverenziale nei confronti di sistemi complessi, decide di prendere in mano le sorti della grande finanza?

Per formarci un’opinione, vediamo quali sono i presupposti di quello che è accaduto.

Primo. Tutto questo non sarebbe stato mai possibile non solo senza Internet, ma ancor di più senza i Social. I piccoli risparmiatori sono tantissimi ma, in natura, agiscono ognuno per conto proprio. In assenza dei Social non sarebbe stato possibile coordinare un’azione come quella su GME. Ne consegue che il primo ed essenziale strumento di questa eventuale rivoluzione sono i Social Network.

E, tuttavia, sappiamo che i Social Network sono un’arma a doppio taglio. Mettono sì la gente in contatto ed in grado di coordinarsi ma, nel farlo, sono in grado di manipolarla in qualsiasi direzione. E lo fanno.

Nel mondo del commercio ed in quello della politica sappiamo ormai senza più alcun margine di dubbio che i Social sono stati e vengono tuttora usati massicciamente per manipolare l’opinione pubblica. Da politici locali. Da servizi segreti stranieri. Da imprenditori. Da chiunque abbia accesso ai dati che si accompagnano alla nostra adesione ed al nostro uso quotidiano dei Social. Da Brexit alle elezioni americane, dal sovranismo ai complottismi più impensabili, il veicolo di manipolazione delle persone è rappresentato dai metadati che viaggiano con i Social.

Secondo. In politica, la nascita di una rivoluzione appoggiata ad una rete digitale di comunicazione aperta a tutti è stata sperimentata da molti movimenti e partiti. A cominciare dal Movimento 5 Stelle, in Italia. Senza entrare nel merito di giudizi politici comunque soggettivi, si è visto come è andata a finire. Il Movimento 5 Stelle, che avrebbe dovuto “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno” e “liberarci dei vecchi partiti” governa oggi pressoché con chiunque si renda disponibile, di Destra o Sinistra che sia. Una forza mandata in Parlamento con uno straordinario patrimonio di voti, allo scopo di portare in Politica “la voce del Popolo” è oggi, secondo i sondaggi, realmente viva proprio grazie al Parlamento, più che al Popolo.

Terzo. Gli investitori istituzionali che scommettono sul ribasso di un titolo in genere lo fanno per ragioni legate alle prestazioni reali dell’azienda, o alle condizioni del mercato nel quale questa si muove. Game Stop vende videogiochi su supporti fisici in un mondo nel quale i nostri figli scaricano i videogiochi da Internet. E’ evidente che, al di là delle bizzarrie della finanza, il modello di business di Game Stop è destinato, prima o dopo, a diventare del tutto obsoleto.

Nel caso di Enron, per quanto i suoi dipendenti siano rimasti schiacciati dalla speculazione, fu proprio la speculazione a portare alla luce le gigantesche irregolarità in pancia ai conti dell’azienda, con conseguente beneficio del sistema nel suo complesso. Il titolo andava a gonfie vele perché i conti erano truccati. Non se ne accorsero i piccoli risparmiatori che investivano la pensione in Enron, né i responsabili politici. Se ne accorsero gli investitori istituzionali.

In sostanza, per quanto i grandi investitori non agiscano ovviamente a fini socialmente utili, la loro capacità di analisi del mercato permette di identificare per tempo tanto quelle aziende che si comportano illegalmente quanto quelle aziende che diventano obsolete. Se poi, come nel caso della crisi dei subprime, gli Stati non mettono in galera i manager disonesti, il problema è della politica, non degli investitori.

Cosa si può dedurre da tutto ciò?

Le mie personali deduzioni sono che siamo di fronte ad una nuova manifestazione della giustificata insoddisfazione generale nei confronti del Sistema che, in questa prima occasione, ha trovato un sollievo.

Per la prima volta i piccoli hanno messo in crisi i grandi sul terreno ad essi più familiare: la capacità di generare profitto. Il senso entusiasmante di rivincita nei confronti di banchieri e finanzieri che, sudati e disperati, vanno in tv a chiedere a gran voce che il sistema venga regolamentato dopo aver approfittato per decenni della sua deregolamentazione è immenso.

Tuttavia, sarebbe un errore vedere in questo l’inizio di una vera rivoluzione, così come è stato un errore leggere nei vari movimenti del populismo mondiale la risposta ai problemi sistemici della nostra Società e delle nostre Democrazie.

Il fatto è che noi abbiamo invertito il processo secondo il quale le vere rivoluzioni si compiono: non è che prima si metta insieme la gente e poi si cerchino le idee. Prima si dovrebbero trovare le idee, e sulla base di queste si dovrebbero mettere insieme le persone. Le piattaforme che connettono le masse non sono, di per sé, uno strumento rivoluzionario se le masse non hanno coscienza della strada che vogliono intraprendere. Che non può essere semplice sete di vendetta, ma una nuova prospettiva generale.

E’ dunque, purtroppo, abbastanza facile prevedere che questa nuova “rivoluzione”, iniziata per motivazioni condivisibili, la frustrazione dei piccoli risparmiatori traditi dal Sistema, verrà presto manipolata a causa della mancanza di un progetto reale. Presto i piccoli investitori cominceranno a commettere errori, o i grandi investitori cominceranno a manipolare i social, o entrambe le cose, in modo tale da riuscire a trarne vantaggio. Le nuove perdite si tradurranno in nuova sfiducia dei piccoli investitori nei confronti del Sistema, con un ulteriore scollamento fra Popolo e Classe Dirigente.

La morale è: state lontani dai sistemi di trading on line e dai commentatori che salutano la vicenda GME come l’inizio di una Rivoluzione nel mondo della Finanza che ci farà tutti ricchi, uccidendo i grandi investitori. E, se volete cambiare il Sistema non cercate di farlo attraverso i gadget digitali del Sistema.

Rischiate di rimetterci l’osso del collo.   

Adatti e Inadatti

Com’è noto, Charles Darwin scoprì che, in Natura, non sopravvive il più Forte, né il più Intelligente, né il più Crudele.

Sopravvive il più Adatto.

Quello, cioè, che si adatta meglio alle circostanze esterne. Quello più flessibile. Questa intuizione, che Darwin applicò alla Natura, in realtà si applica benissimo anche alla Società.

Fra gli uomini ci sono tre categorie di persone che sanno adattarsi alle circostanze. I Parassiti perché, per definizione, la loro sopravvivenza dipende dalla capacità di adattarsi agli “ospiti”. Gli Eroi, perché il loro eroismo nasce con, e dipende dalle circostanze esterne. Gli Artisti, perché appartengono ad una dimensione diversa da quella del quotidiano e non si interessano delle circostanze esterne se non in funzione della loro arte.

Parassiti, Eroi e Artisti ci saranno sempre, e sempre si scambieranno i ruoli. Pensate, per esempio, alla coppia Sordi-Gasman ne “La Grande Guerra”: è la storia di due Parassiti che diventano Eroi. Forse il loro eroismo era già implicito nel loro parassitismo: essi si adattavano ad una guerra che non capivano ed alla quale erano totalmente estranei. A pensarci bene, il loro cercare di sopravvivere in quella follia, ha già in sé qualcosa di eroico.

Pensate a quanti grandi Artisti hanno vissuto da Parassiti. Per un grande artista le preoccupazioni del quotidiano, dalla gestione della vita pratica alla propria sopravvivenza, pur essendo una dimensione necessaria sono, in fondo, psicologicamente irrilevanti. Per loro, la realtà non è infatti quella del quotidiano, ma quella che vi sottende. Una realtà più profonda, più insondabile, meno leggibile, ma ad essi chiarissima.

Gli artisti spesso collocano la propria moralità su di un piano diverso da quello degli altri uomini proprio perché avvertono che il comune senso morale poggia su basi in fondo superficiali. Consuetudini… tradizioni… pregiudizi. E’ eticamente accettabile ciò che permette loro di cogliere ciò che sta sotto alla realtà quotidiana, ciò che essa nasconde, e di esprimere la loro arte, al di là di quello che la Società considera eticamente accettabile per il resto del mondo.

La storia dell’arte è piena di gente che campa sulle spalle degli altri. Quella del Cinema, in particolare, abbonda di leggende picaresche sul modo in cui i grandi della Settima Arte abbiano succhiato il sangue, in senso economico o emotivo, o entrambe le cose, di chiunque avesse avuto la disgrazia di avvicinarli.

Rossellini si faceva prestare i soldi per i suoi film da chiunque. Una volta il suo macellaio gli prestò un milione. Il film non incassò e Rossellini non rimborsò il debito. In compenso, riuscì, incontrando per caso il macellaio sull’espresso Roma Milano, ad usare le ore di viaggio per convincere il poveretto a prestargli un altro milione. Credo che a nessuno venga in mente di considerare per questo Rossellini un uomo disonesto. E sono certo che egli non si considerasse tale. Disonesto si sarebbe considerato se, anziché fare “Paisà”, avesse usato quel denaro per fare un film qualsiasi.

L’Eroe. Qualche giorno fa un collega mi ha fatto una domanda sulla mancanza di aspirazioni di un personaggio. Mi è venuto istintivo di pensare all’eroe occidentale per antonomasia: Ulisse. Senza la Guerra di Troia, la circostanza che cambiò la sua vita, che eroe sarebbe stato Ulisse? Un re ricoperto di pelle di pecora, sovrano di qualche centinaio di pecorai come lui, confinati su di un’isoletta piena di pecore e olive. Senza le circostanze esterne, Odisseo non sarebbe mai esistito. Le sue aspirazioni originarie, che probabilmente si limitavano ad aumentare il numero delle pecore e delle olive, non ebbero alcuna relazione con la grandezza del suo personaggio, una volta messo di fronte alla necessità di combattere a Troia, per poi trovare il modo di tornarsene a casa sua, nonostante la stizzosa opposizione degli dei. Il re furbissimo si adattò benissimo alle circostanze esterne.

Se anche nella Società vale l’assunto di Darwin, ne consegue che affinché le persone eticamente migliori prosperino, è necessario agire perché le circostanze esterne richiedano, per adattarvisi, di essere eticamente migliori.

Se un Parassita, un Eroe o un Artista vivono in un mondo violento, eticamente inaccettabile e dominato dall’oscurità, la loro naturale propensione ad adattarvisi perpetuerà quel mondo. L’Eroe potrà certo morire sul rogo, l’Artista potrà certo trovare il modo di concepire la propria opera indipendentemente dal dittatore di turno, il Parassita riuscirà comunque a trovare il modo migliore di cavarsela, sia pure se, per farlo, dovesse mandare al rogo l’Eroe e tenere l’Artista in una condizione di perpetua censura. Ma le loro azioni, per quanto nobili, o ignobili, saranno reazioni adeguate alla realtà esterna, in assonanza con essa. Non saranno azioni di rottura, di rivoluzione di essa.

Direi che sia per questo che Eroi e Artisti vengano spesso completamente riconosciuti dopo la loro morte. Le loro imprese appaiono ai coevi come necessarie o irrilevanti, un pò folli o eccessive, a seconda del vento, perché le persone normali non possiedono l’istinto di adattamento alla realtà profonda che hanno loro. I coevi di questi perfetti adatti non capiscono la realtà alla quale devono adattarsi quanto la capiscono gli Adatti. Eroi, Artisti e Parassiti sanno istintivamente leggere le passioni oscure che agitano le società, cosa che il velo del quotidiano, che regola la vita di tutti noi, non ci permette di fare. Solo più tardi, i posteri si renderanno conto che il mondo che quelle persone leggevano non era che un prologo al loro Futuro.

Se la Rivoluzione è la rottura dell’Adattabilità, il vero Rivoluzionario, dunque, non può essere né un Parassita, né un Eroe, né un Artista. Egli deve essere una persona che non è in grado di adattarsi al mondo che lo circonda, perché ne coglie soltanto le ingiustizie o le brutture manifeste, ovvie, quotidiane. Il vero rivoluzionario deve essere costretto a cercare di cambiare il mondo nel quale abita, perché spintovi da una necessità interiore insopprimibile. Deve essere una persona destinata a soccombere, perché completamente inadatta, in senso darwiniano, ma non deve essere un martire (nel senso dell’eroe) perché il suo martirio sarebbe solo la riconferma del mondo che egli, o ella, cerca di sovvertire. Deve essere una persona che cerca disperatamente di adattarsi, senza riuscirci in alcun modo.

Il vero rivoluzionario ha dunque bisogno di essere povero, isolato, esiliato, umiliato, solo, inascoltato finché non scopre la sua reale vocazione. Non è una visione romantica questa. E’ una necessità. E, del resto, si tratta della condizione vissuta dalla maggior parte delle grandi figure rivoluzionarie del passato.

Ma, quando il vero Rivoluzionario, o la vera Rivoluzionaria, avranno finito il loro lavoro, il Parassita, l’Eroe e l’Artista dovranno trovare un nuovo modo di adattarsi. Se il Rivoluzionario avrà creato per loro un mondo migliore, queste tre piante umane, per loro natura, perpetueranno il mondo migliore, invece che quello peggiore.

Di questi tempi, i nostri poveri Eroi, i Parassiti e gli Artisti non aspettano altro che qualcuno si decida a ritenersi troppo inadatto alla Società per continuare a viverci. Purtroppo per noi tutti, la Società contemporanea, pur essendo in realtà una delle meno accoglienti che siano mai state concepite, eccelle nell’abilità di far sentire colpevoli gli esclusi, più che coloro i quali escludono. Ed, al di là della retorica, non è facile trovare qualcuno che, davvero, non trovi alcun modo per adattarsi all’aurea mediocritas nella quale tutti noi viviamo.

Ma il mondo non è un posto stabile, e la Speranza non muore mai. Sono sicuro che, in questo preciso istante, da qualche parte, qualcuno si sente tanto disperatamente Inadatto da pensare di non avere altra scelta se non quella di creare un mondo migliore per chi è più Adatto.

Dio Lo Vuole!

La foto dello “Sciamano”, al secolo Jacob Anthony Chansley, alla testa della folla che ha aggredito Capitol Hill nel giorno della conferma di Biden, è una delle immagini di quella giornata che, certamente, resteranno nella nostra memoria.

Ce ne sono però diverse altre, forse meno pittoresche ma che, ad uno sguardo più attento, sono altrettanto, se non più, interessanti. Quelle foto ci dicono che la folla di Capitol Hill era eterogenea e non necessariamente composta solo da personaggi da circo. Fra i manifestanti, ad esempio, sono stati fotografati Klete Keller, due volte medaglia d’oro di nuoto alle Olimpiadi; l’ex tenente colonnello dell’aeronautica militare Larry Brock; il deputato dell’assemblea legislativa della West Virginia, Derrick Evans; Aaron Mostovsky, figlio di un giudice della Corte Suprema di Brooklyn; Nicholas Ochs, leader del Capitolo hawaiano dell’organizzazione suprematista Proud Boys (quella che Trump invitò a “Stand back, and standby”, nel primo faccia a faccia con Biden); Bradley Rukstales, l’amministratore delegato di una società di marketing di Chicago …

E poi c’è una foto sulla quale conviene soffermarsi. E’ quella del Senatore repubblicano Josh Hawley che, entrando nell’edificio per andare a votare, saluta i manifestanti con il pugno alzato, a mò di incoraggiamento.

Il Senatore è oggetto di un articolo del New York Times, Opinion | The Roots of Josh Hawley’s Rage – The New York Times (nytimes.com) sul quale un vecchio amico che da molti anni vive a Washington ha attirato la mia attenzione. L’autrice dell’articolo, Katharine Stewart, si occupa da un decennio di un tema a me fino a poco tempo fa praticamente sconosciuto, se non per le sue manifestazioni folcloristiche, ma molto interessante: il fondamentalismo cristiano negli Stati Uniti. Giusto per inquadrare il personaggio, nel suo articolo Stewart spiega che il Senatore Hawley è convinto che tutti i nostri problemi nascano dalle considerazioni di un monaco nato in Britannia nel 360 d.C., Pelagio.

Cosa ha detto di tanto terribile Fra Pelagio? Che la grazia divina illumina coloro i quali vivono rettamente la loro vita, non coloro i quali seguono ciecamente la dottrina. Per Pelagio, la grazia viene dalle opere, che sono figlie del discernimento fra Bene e Male, non dall’obbedienza. Nella Lettera a Demetriade, difendendo il concetto di libero arbitrio, Pelagio scrive: “Nell’essere capace di distinguere la duplice via del bene e del male, nella libertà di scegliere l’una o l’altra sta il suo (dell’Uomo) vanto di essere razionale. Non vi sarebbe alcun merito nel perseverare nel bene, se egli non avesse anche la possibilità di compiere il male. Per cui è un bene che possiamo commettere anche il male; perché ciò rende più bella la scelta di fare il bene.”

Il Senatore Hawley ritiene tuttavia che il fatto che le democrazie moderne permettano agli uomini di decidere, con il proprio cuore e con la propria razionalità, e nel perimetro dello Stato di Diritto, cosa sia il Bene e cosa sia il Male, sia il principio di tutto il Disordine del nostro mondo. Poiché, a suo modo di vedere, essi dovrebbero limitarsi a seguire la dottrina e le leggi indicate loro da un gruppo di fedeli cristiani, che darebbero loro regole discendenti direttamente dalla parola di Dio. O, come dice lui, di Gesù Cristo.

Il Senatore Hawley si trova al Senato grazie ai potenti gruppi di cristiani fondamentalisti che ce lo hanno mandato, ed è lì, coerentemente con le proprie idee, per permeare la politica americana del messaggio di questi gruppi. I quali hanno da tempo adottato una strategia vincente di penetrazione culturale della società, che si basa sul proselitismo instancabile e sui dubbi etici che, talvolta la democrazia e lo Stato di Diritto, possono sollevare nelle persone.

Ma cosa ha a che fare tutto questo con Trump? Perché Hawley sostiene i manifestanti di Capitol Hill, e perché ha seguito il Presidente nella sua accusa che le elezioni fossero state funestate da seri brogli? Secondo un exit poll sul voto americano condotta da Edison Research (Election Polling Services – Edison Research), il 28% degli intervistati si è dichiarato “White evangelical or white born-again Christian”. Di questi, il 76% ha votato per Donald Trump.

In tutto ciò, occorre notare, la parola “white” è cruciale.

Dopo aver letto l’articolo della Stewart, e visto un video di Frank Schaeffer, un regista e scrittore americano che, avendo conosciuto in gioventù il fondamentalismo cristiano se ne è poi allontanato, video nel quale egli sostiene che esiste una lobby fondamentalista che vorrebbe trasformare la democrazia americana in una teocrazia, ho cercato di informarmi di più su questo mondo.

Se molti forum di organizzazioni cattoliche, come la COR, Catholic Organisation for Renewal, condannano fermamente le vicende del 6 gennaio, da sempre esiste in America un gran numero di organizzazioni fondamentaliste che condizionano la politica e la società americana. Dagli anni Cinquanta in poi, molte di queste si sono allontanate dal tradizionale impegno nell’istruzione e nelle opere caritatevoli, per dedicarsi in modo strutturato all’attivismo politico.

I loro sforzi in questo campo non si limitano oggi a fare campagna per opporsi alle evoluzioni della società contemporanea in tema di libertà sessuale, di aborto o parità di genere. Queste cose formano da sempre l’oggetto delle preoccupazioni e del dibattito di tutti i fedeli, a qualsiasi confessione religiosa essi appartengano e, pur avendo la potenzialità di scardinare i principii della democrazia liberale, non sono i temi, da soli, a rappresentare un pericolo.

Le organizzazioni americane del fondamentalismo cristiano ritengono essenziale che i loro principii dottrinari e valori vengano tradotti nel comportamento generale dei cittadini, in ogni ambito della vita pubblica e privata. A questo scopo, hanno adottato una strategia di penetrazione culturale e di lobbying politica estremamente serrata. Tali principii e valori si identificano sostanzialmente con quelli portati dai protestanti inglesi a bordo della Mayflower: puritanesimo bianco, creazionista e sciovinista.

Il suprematismo bianco, il sovranismo e la identificazione della Nazione con una Fede, vanno a braccetto. Quando Trump usava la famosa frase “Make America Great Again” (MAGA), è alla restaurazione di tali valori che, molti di questi fondamentalisti, pensavano che il Presidente si riferisse.

Un’America Cristiana, Bianca, Potente.

Il bello di uno slogan come MAGA è che, in teoria, può richiamarsi a qualsiasi valore fondante della società americana, compresi quelli Liberal. E’ per questo che tantissimi operai disoccupati, ad esempio, hanno creduto che parlasse a loro ed al tentativo di riportare l’Industria americana agli antichi splendori, proteggendola dall’attivismo economico cinese.

Nel 2019 una ricerca condotta da Opendemocracy ha evidenziato come, sull’onda lunga della vittoria di Trump, alcune organizzazioni del fondamentalismo cristiano americano abbiano cominciato a finanziare movimenti d’opinione e strutture europee, con l’idea di combattere una battaglia in “prima linea sul fronte culturale”.

Nel corso di pochi anni, sostiene Opendemocracy, questi finanziamenti sono arrivati alla cifra di 50 milioni di dollari, anche se vi sono indizi del fatto che il denaro arrivato in Europa sia molto di più. La ricerca ha tanto preoccupato il Parlamento Europeo che quaranta dei suoi membri hanno chiesto a Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione Europea, di indagare sul fenomeno. I paesi europei coinvolti in questo flusso di denaro sono diversi, e l’Italia è uno di questi. Forse non è dunque un caso se, prima che la pandemia catturasse l’attenzione di tutti, avesse avuto inizio, anche da noi, un certo revival delle posizioni cattoliche più conservatrici.

Tutti ricordiamo, ad esempio, Matteo Salvini che, fino al 2019 non particolarmente noto per la sua devozione religiosa, si affida all’improvviso e con grande enfasi al cuore immacolato di Maria. Certo, memori delle sue fotografie al Papeete, un pò fatichiamo a vedere in Salvini un sincero fondamentalista cristiano. Ma, alla luce di quanto scritto finora, sarebbe un errore limitarci a sorridere rispetto a queste ricorrenti manifestazioni di salviniana devozione. D’altra parte non esiste solo Matteo Salvini.

Ricordiamo ad esempio il XIII Congresso Mondiale delle Famiglie, che si svolse a Verona nel 2019, e che vide la partecipazione (oltre che di tre ministri dell’allora governo italiano e di personalità dei movimenti anti gay, antiabortisti, anti parità di genere ecc. di mezzo mondo, inneggianti, fra le altre cose, alla legge di Putin contro l’omosessualità) anche di Giorgia Meloni e di tanti esponenti della galassia extraparlamentare della Destra estrema. Conosciamo anche il punto di vista di alcuni cattolici, persino di Principi della Chiesa, nei confronti di Papa Francesco, giudicato non abbastanza rigoroso. Ricordiamo infine, come a saldare i due mondi che stiamo descrivendo, quello delle forze americane cristiane che hanno sostenuto Trump e l’Europa, la famosa lettera che l’Arcivescovo Carlo Maria Viganò scrisse al Presidente Trump poco prima delle elezioni di Novembre.

Tutto ciò può portare ad una conclusione preoccupante. Le divisioni profonde in seno alla società occidentale, la crisi apparentemente inarrestabile dell’economia reale alla quale tuttavia non si accompagna una crisi della finanza (il che comporta situazioni paradossali, come il verificarsi del dato peggiore sull’occupazione americana e quello migliore per Wall Street nello stesso giorno, a significare povertà sempre maggiore di strati sempre più ampi della società, accompagnata dal crescente benessere del mondo finanziario) provoca una crescita esponenziale della quantità di cittadini europei e americani che non trovano più, nelle tradizionali forze politiche e nelle tradizionali proposte politiche della democrazia di stampo liberale o social democratico, risposte ai loro problemi.

Esiste ormai in Occidente un vuoto di rappresentanza politica e culturale di proporzioni allarmanti. Un vuoto di queste dimensioni non resterà a lungo incolmabile. Non attende che di essere riempito da qualcuno o qualcosa. Il fondamentalismo suprematista cristiano possiede alcune delle caratteristiche necessarie per candidarsi ad essere quel qualcosa.

Esso può fornire una fede a chi non ha più speranza. Una dottrina a chi non ha più cultura. Una verità unica e semplice ad una società che ha smarrito la capacità di distinguere fra realtà e fake news. Una direzione priva di dubbi in un sistema che si avverte come troppo farraginoso, inefficiente e complesso.

Il fondamentalismo cristiano dispone dei mezzi finanziari necessari a crescere e ad imporsi. Dispone delle persone di riferimento e dei movimenti di attivisti. E dispone, cosa più importante di tutte, della strategia giusta per avere la possibilità di prevalere: la capacità di ingaggiare una guerriglia culturale che permei la società nel suo vissuto quotidiano.

E’ possibile, alla luce di tutto questo, che il genere di violenza che abbiamo visto a Capitol Hill sia solo l’inizio dei problemi, di una lunga serie di scontri violenti fra il suprematismo cristiano bianco e le forze della democrazia liberal americana, rese ancora più deboli dagli evidenti squilibri economici dei quali soffre la nostra società, invece che il segno della fine di Trump.

Un fondamentalismo cristiano in Europa rischia poi, oltre che di distruggere le nostre democrazie, di creare le condizioni per uno scontro violento con l’altro fondamentalismo religioso che ammorba il nostro mondo: quello islamico.

Il fatto che, finora, l’Europa abbia opposto lo Stato di Diritto alla follia del terrorismo islamico, lungi dall’averci messo in una condizione di debolezza, ha invece protetto i cittadini europei di qualsiasi credo religioso da una vera e propria guerra di religione. In Europa siamo stati maestri di questo genere di scontri, ai quali abbiamo sacrificato nei secoli milioni di persone.

Da oggi in poi, converrà dunque smettere di sorridere quando vedete un politico europeo, apparentemente folgorato sulla via di Damasco, che si raccomanda alla Madonna. Smettere di pensare che i predicatori americani che arringano folle di migliaia di persone siano solo un’immagine pittoresca fra le tante che arrivano da Oltreoceano. Smettere di considerare la lotta per i diritti della comunità LGBTQ o per la parità di genere una lotta che, in quanto maschi o femmine eterosessuali, in fondo non vi riguardi. Smettere di limitarci a scuotere il capo quando ci capita di ascoltare o di leggere discorsi razzisti, perché se il razzismo si salda con il fondamentalismo religioso politico, allora possiamo davvero finire nei guai.

Perché è infatti proprio allora che potremmo trovarci a vivere il famoso Scontro di Civiltà del quale tanto si è favoleggiato negli ultimi vent’anni. E allora, rimpiangeremo anche la nostra fragilissima, inefficientissima e corrottissima democrazia.

Vizi Privati e Pubbliche Virtù

Non è mai stato chiaro se Giulio Andreotti abbia effettivamente pronunciato la famosa osservazione: “a pensar male si commette peccato, però spesso ci si azzecca”. A testimonianza di quanto Andreotti (o il suo mito) fosse in sintonia con un aspetto profondo del carattere dei popoli, non solo di quello italiano, questo è comunque, più o meno, il pensiero di quella parte dell’opinione pubblica mondiale che guarda con sospetto agli immensi guadagni che alcune industrie farmaceutiche realizzano grazie al vaccino anti Covid.

C’è chi va oltre il semplice sospetto attribuendo, più o meno esplicitamente, più o meno fantasiosamente, a quei potentati economici l’origine stessa della malattia, finalizzata a guadagnare, poi, con il vaccino, cifre immense; o, se non la creazione del virus in sé, almeno l’origine e la ragione più profonda del panico scatenato da governi e media, panico che favorisce l’invocazione del vaccino da parte di tanti.

Che “Big Pharma” guadagni dal vaccino anti-Covid è indubbio. Che l’industria farmaceutica abbia manovrato per creare il problema dal nulla non è dimostrabile. Che abbia operato per far sì che non vi fosse alcuna alternativa alla ricerca di un vaccino è presumibile: scopo delle aziende farmaceutiche, come di qualsiasi altra azienda, non è quello di salvare la vita della gente, ma quello di creare profitto per i propri azionisti. Per cui, mi sembra abbastanza plausibile che, una volta alle prese con il problema, tutti gli industriali e tutti i lobbisti delle case farmaceutiche abbiano cercato in ogni modo di salire sul carro del vaccino, facendo il possibile per arrivare per primi sul mercato.

Le persone che, avvertendo l’ovvia realtà, e cioè appunto che il motore della ricerca e della produzione del vaccino da parte di aziende private sia stato il profitto, automaticamente ne deducono che il vaccino sia una bufala, o che sia dannoso, compiono un errore concettuale evidente. Ford costruiva automobili non per assicurare la mobilità agli americani, ma per guadagnare del denaro: questo non implica ovviamente che le automobili di Ford fossero una bufala.

Tuttavia queste persone, che partono dal disagio di fondo che provano nell’avvertire la dissonanza fra la retorica del “finirà tutto bene”, del “ce la faremo insieme” eccetera, ed il fatto che, mentre la società nel suo complesso affonda, qualcuno, da qualche parte, stia diventando pluri miliardario “grazie” all’esistenza del Covid, inavvertitamente evocano una questione molto seria, che prescinde dalle loro fantasiose conclusioni.

La questione è: nel caso di ambiti che interessano la sopravvivenza stessa di una comunità, è giusto che la ricerca scientifica sia finalizzata alla produzione di profitto?

Nel caso della ricerca scientifica di base che ha condotto al vaccino, come testimonia l’articolo di Scientific American riportato in fondo a questo post, il problema è anche più evidente: gli Stati Uniti d’America hanno finanziato per molti anni la ricerca pubblica senza la quale non sarebbe stato possibile arrivare al vaccino, per poi permettere che i benefici economici di questa ricerca andassero ad aziende private, spendendo ulteriori, gigantesche somme, per comprare da loro un vaccino sviluppato in larga parte grazie ai soldi dei contribuenti.

Come se il contribuente americano avesse pagato due volte per avere una cosa che può rivelarsi cruciale non solo per la propria sopravvivenza, ma anche per la sopravvivenza dello stesso Sistema sociale del quale fa parte. Inutile dire che i ricercatori pubblici cui si deve la ricerca che ha condotto al vaccino anti-Covid non sono affatto diventati milionari. Anzi, almeno una di loro, come riportato nell’articolo, guadagnava meno dei tecnici di laboratorio con i quali lavorava.

Da molti anni a questa parte ci siamo abituati a considerare il Mercato come un’espressione della Natura. Come la pioggia, il vento o i fiumi. In realtà, com’è ovvio per qualsiasi creazione umana, anche il Mercato è una convenzione le cui regole possiamo decidere di cambiare in qualsiasi momento. A patto di tornare a vederlo come tale.

Non ha senso mettere in discussione il profitto che le aziende farmaceutiche fanno grazie alle attuali regole di mercato, né serve a molto, se non a diffondere credenze pre illuministiche ed a generare il caos, immaginare complotti di alieni e bevitori di sangue d’infante: noi possiamo e dobbiamo oggi mettere in discussione il principio secondo il quale siamo noi a rendere possibile ed a pagare ciò che, una volta acquistato a poco prezzo dalle aziende manifatturiere, esse rivendono a noi a prezzo maggiorato.

Noi possiamo fermarci a riflettere se sia più conveniente, per il benessere dell’intera società, che i risultati della ricerca scientifica di base si trasformino in profitti privati, o se non sia invece più adeguato che essi vengano reimmessi nella nostra vita in forma pubblica.

Quasi tutto ciò che rende possibile la nostra vita oggi è nato grazie alla ricerca scientifica finanziata e realizzata da enti dello Stato. Tutto il mondo della comunicazione digitale ne è un chiaro esempio. Quella ricerca è stata finanziata grazie alle tasse pagate negli anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta, alla fine dei quali essa è andata a costituire la base di partenza per l’esplosione della Silicon Valley, non di un’azienda, o di un gruppo di aziende dello Stato.

D’altra parte, la ricerca di base non può che essere finanziata dallo Stato. E questo non perché gli imprenditori privati non siano capaci di farne, perché complottino contro di noi o perché siano dei profittatori, ma perché la ricerca di base non produce immediatamente l’oggetto della loro impresa: che non è un computer, o un vaccino, ma il profitto. E perché noi abbiamo smesso di domandarci se sia una buona idea svendere ai privati ciò che poi finisce per arricchire solo loro.

La conseguenza del tramonto dell’idea per la quale il Bene Pubblico è più importante del Bene Privato è la crescente sfiducia nel Sistema da parte di tutti coloro i quali non partecipano della ricchezza prodotta dal Bene Privato, pur contribuendo faticosamente, e obbligatoriamente, al Bene Pubblico. La conseguenza di tale sfiducia è la proliferazione di ogni sorta di pericolose derive, dalle varie teorie del complotto, fino al rifiuto di molti di fidarsi delle scoperte scientifiche.

Si può non essere d’accordo con chi avverte questa sfiducia, ma è miope non considerarne le motivazioni profonde: tutto nasce dalla consapevolezza che il profitto, e non il benessere generale, sia motore di qualsiasi cosa. La conclusione che, anche per la stessa sopravvivenza di un sistema di mercato, sarebbe bene riportare il Bene Comune ad una posizione di preminenza e di precedenza rispetto alla Creazione del Profitto sembra lapalissiana e molto semplice. Ma non lo è: la nostra società è stata ubriacata da cinque decenni di retorica sul libero Mercato e sulla necessità di ridurre la presenza dello Stato nelle nostre vite. Abbiamo dimenticato che il Mercato può essere regolato, e soggetto a leggi.

La sua ineluttabilità è ciò che dobbiamo tornare a mettere in discussione.

For Billion-Dollar COVID Vaccines, Basic Government-Funded Science Laid the Groundwork – Scientific American

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Cassandra Scrive

Mia madre è stata una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto.

Anche se nessuno le credeva mai, era capace di prevedere il Futuro. Io litigavo spesso con lei: le sue previsioni erano immancabilmente catastrofiche e, quando avevo vent’anni, il suo pessimismo mi dava molto fastidio. Me la ricordo bene, seduta sulla sua poltrona preferita, con il suo whisky e le sue sigarette, i capelli precocemente imbiancati e l’aria depressa, mentre mi guardava con l’espressione triste che hanno i Profeti quando cercano, senza successo, di convincere i loro interlocutori della bontà delle loro profezie. Non so se vi sia mai capitato di entrare in polemica con un Profeta. Spero che non vi capiti mai, perché entrare in polemica con chi ha ragione, sapendo tuttavia che non ha completamente ragione, avvertendo che sbaglia qualcosa di importante, che non si è però in grado di identificare con precisione, è un esercizio particolarmente frustrante e faticoso.

Le nostre discussioni sulla Politica e sulla Società si chiudevano immancabilmente con me che abbandonavo la sala arrabbiato e pieno di indignazione, e con mia madre che, in silenzio, riprendeva a bere.

In realtà mia madre non era un Profeta, ed io non ero arrabbiato con lei. Come sa bene chi l’ha conosciuta, mia madre era una persona molto dolce, di enorme acume e di grande cultura che si limitava ad applicare l’intelligenza alla lettura dei fatti del Presente, alla luce di quelli del Passato, per cercare di individuarne le conseguenze nel Futuro. Ed io ero arrabbiato con me stesso, perché sentivo di non avere il potere di salvarla.

Oggi io vivo nel Futuro che mia madre prevedeva, ed ogni giorno che passa non posso che constatare quante delle sue conclusioni si siano rivelate perfettamente esatte. Perché, allora, non veniva ascoltata?

Solo con il tempo, mi sono reso conto del fatto che ciò che impediva a me, come a tanti altri, di crederle fino in fondo, non fosse il cosa dicesse, ma il come lo dicesse. Mia madre era timida, e soffriva di depressione. Benché fosse molto amata e ammirata da tantissima gente, compresi i suoi studenti di Storia e Filosofia al Liceo, ella veniva amata e ammirata da lontano. Le persone, ad eccezione di pochissime, tendevano a considerarla altro da sé, diversa, in qualche modo irraggiungibile. Percepivano inconsciamente la sua intima disperazione, e se ne tenevano distanti.

Come Cassandra, il personaggio della mitologia troiana costretto a predire il Futuro senza mai essere creduto, per via del suo rifiuto dell’amore di un dio, che per punirla le aveva sputato sulle labbra, mia madre condiva infatti le sue esatte previsioni con un’aura di pessimismo e di tragicità che impediva agli altri di cogliere la ragione al di là dell’emozione. Per quanto fossero ragionevoli le cose che diceva, le emozioni che gli interlocutori percepivano erano talmente tristi che essi erigevano inconsciamente una barriera difensiva.

Mia madre compiva anche un altro errore, questo di carattere metodologico, che aveva a che fare con la funzione del Tempo relativamente alle conseguenze delle cose.

Le conseguenze dei fatti possono essere previste. Ma è molto difficile, soprattutto quando i fatti riguardano lo sviluppo della Società, immaginare il tempo necessario perché esse si dispieghino nella loro completa evidenza. Il tempo è un fattore della complessità che non può essere ignorato, ma che è quasi impossibile calcolare. Sbagliare i tempi equivale, per la maggior parte di noi, a sbagliare le previsioni. Quello che mia madre ha immaginato sulla Società è vero oggi, a quasi vent’anni dalla sua scomparsa, ma non era altrettanto vero a cinque anni dalla sua morte.

Questo Blog, che spero di avere la costanza di proseguire, è dedicato a mia madre. Da lei ho ereditato la curiosità per i processi di cambiamento della società, ed una certa capacità di leggerli, senza averne ereditato la tragicità. Si parlerà di Politica, e un pò anche di Cinema, le mie due grandi passioni, con chi vorrà farlo.

Sapendo una cosa che mia madre, purtroppo, non capì mai. Che, per quanto il mondo possa essere un posto terribile, lo è molto meno di quanto non sembri, e non lo è mai fino in fondo. Perché, oltre alle conseguenze negative dei processi, esistono sempre anche le opportunità per ribaltarle.

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