Con il disastro che abbiamo sotto gli occhi, scrivere di Guerra e di Pace è oggi un esercizio scivoloso. Inutile cercare risposte specifiche alle crisi in atto. Su Israele e Palestina, ad esempio, la Storia, che non è solo quella dalla Dichiarazione Balfour ad oggi, ma che ricomprende quella plurimillenaria dei figli di Sem, è troppo lunga e complicata perché un non esperto possa anche solo tentarne una lettura, senza cadere in una qualche forma di parzialità. Ma, così come la guerra fra Russia e Ucraina, l’aggressione terroristica del 7 ottobre e la risposta di Israele non possono non interrogare la coscienza di tutte quelle persone che credono profondamente nella Pace.
In questo momento storico il mondo si sta pericolosamente esercitando in una serie di conflitti regionali dall’esito imponderabile, quasi tutti, per un motivo o per l’altro, potenzialmente detonatori di conflitti su scala globale. Naturalmente, in questo senso penso, oltre a Israele e Palestina, ed all’aggressione russa dell’Ucraina, anche all’esodo di un milione di armeni dal Nagorno Karabakh. Alla pressione cinese su Taiwan. Alle tensioni nei Balcani. Alle dozzine di crisi, colpi di Stato, rivolte, instabilità del continente africano, che non cerco nemmeno di ricapitolare.
In quanto principale superpotenza militare ed economica globale, gli Stati Uniti giocano, ovviamente, un ruolo in ciascuno di questi conflitti, che essi siano in atto o in fase di incubazione. La strategia di Biden sembra essere finalizzata a tenere i focolai sotto controllo, permettendo loro di svilupparsi solo fino ad un certo punto, cercando il più possibile di circoscriverli, e lasciando che il Tempo li porti allo stallo per poi, presumibilmente, condurre delle trattative per ristabilire, più o meno, lo status quo ante. Questa strategia è particolarmente evidente sul fronte russo-ucraino, dove la famosa avanzata ucraina si è impantanata. L’America dà l’impressione di comportarsi come quei medici che permettono alle febbri di crescere, controllandone l’evoluzione, per dar modo alla malattia di sfogarsi senza mai giungere a livelli autenticamente pericolosi per il malato.
Tornerò su questa strategia fra poco. Ma prima vorrei fare qualche considerazione su quello che stiamo vedendo. Sono considerazioni ovvie, ma non vengono spesso messe in fila. Prima di tutto: in tutti i casi, i conflitti sorgono laddove vi sono problemi irrisolti da troppo tempo. Ognuna delle questioni maggiori è figlia di decenni, se non di secoli, di fallimenti nella composizione delle contese. In secondo luogo, il fattore etnico o religioso, o una combinazione dei due, gioca un ruolo cruciale in ciascuno di essi. In terzo luogo, tutti i conflitti sono scoppiati, o stanno scoppiando, in zone di confine. Confini politico culturali fra Occidente e Oriente. Confini fra sfere d’influenza stabiliti all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Confini fra popolazioni di etnie o religioni diverse. E’ come se ogni scontro avvenisse in prossimità di una faglia terrestre, in perenne smottamento.
Da queste considerazioni ne discendono alcune altre. Primo: l’inadeguatezza delle organizzazioni sovranazionali di fronte alle crisi. Ormai da moltissimo tempo risulta evidente che le Nazioni Unite non riescono ad impedire il formarsi di crisi internazionali gravi. La recente votazione sulla proposta giordana di cessate il fuoco su Gaza, in favore della quale hanno votato 120 nazioni, 45 si sono astenute e solo 14 hanno votato contro, è l’ennesimo lampante esempio dell’inefficacia dell’ONU nella composizione delle controversie internazionali. Non solo il cessate il fuoco non è avvenuto, nonostante la stragrande maggioranza dei voti a favore, ma Israele si è spinta fino ad accusare il Segretario delle Nazioni Unite di antisemitismo, contestandogli in questo modo platealmente quel ruolo super partes che esso presuppone.
La seconda deduzione è che gli Stati Uniti stanno fallendo nella loro missione imperiale. L’idea che, dopo il crollo del Muro di Berlino, il mondo sarebbe stato in Pace sotto l’ombrello americano è definitivamente tramontata. Lo è ormai da anni, ma oggi la frana comincia a somigliare ad un terremoto. L’America non riesce a trovare soluzioni adeguate alle crisi, non riesce ad interpretare il suo ruolo di maggiore super potenza globale in modo adeguato. Voglio sottolineare che non gliene faccio necessariamente una colpa: il mondo è troppo complesso perché sia possibile definirlo in termini di “buoni” e “cattivi”, divisione che gli americani, per Storia e cultura sono portati istintivamente a fare. Soprattutto, quello americano è il primo impero nella Storia che debba prendere in considerazione gli umori del proprio elettorato.
Dal Vietnam in poi si è capito che, l’America perde le guerre dentro casa. L’unica osservazione che mi sento di fare in merito è che gli americani ripongono troppa fiducia nella loro capacità militare e nella loro solidità economica, mentre non appaiono particolarmente efficaci in termini di strategia politico diplomatica. Gli Stati Uniti rischiano ogni anno il default, che riescono ad evitare all’ultimo secondo solo grazie ad infinite mediazioni fra forze politiche sempre più distanti e confuse. Che la Pace nel mondo dipenda anche dagli umori dell’ultimo senatore del Wisconsin al cui voto sia rimasta appesa la solvibilità dello Stato non è rassicurante. Si dirà che questa è la Democrazia. E va benissimo. Ma il punto è proprio questo: la Democrazia non è una forma di governo che si presti alla gestione di un Impero di fatto, dove le decisioni che contano non possono essere prese tenendo in considerazione imminenti elezioni domestiche. La contraddizione fra ideale democratico ed egemonia globale si mostra, di questi tempi, particolarmente insanabile. Quanto alla potenza militare, quella sulla quale l’America può davvero contare senza dubbi, cioè quella nucleare, è utile a distruggere il pianeta, non a vincere una guerra a seguito della quale si presume che resti qualcuno a gestire la Pace.
La terza deduzione è che il mondo uscito dalla fine dell’Unione Sovietica e dell’ideale Socialista non è più governabile. I Paesi che, fra la fine della Seconda Guerra Mondiale ed il 1989, hanno cercato nel Socialismo la strada per modernizzarsi ed affrancarsi dalle antiche faide etniche, religiose, tribali, ecc., si sono ritrovati senza una credibile alternativa ideologica alla quale ispirarsi. E sono ripiombati in ciò che erano prima. La laicità degli Stati, soprattutto quelli africani e arabi, è stata rimessa in discussione e, quasi ovunque, sconfitta.
La quarta deduzione è che l’Europa ha perso quasi ogni strumento di pressione a sua disposizione. Pur essendo il continente più ricco e libero del mondo, anche rispetto all’America, l’Europa ha rinunciato, per presunta convenienza, a qualsiasi reale pretesa d’influenza politica globale. La principale preoccupazione dell’Unione Europea in politica estera resta quella di mantenere l’ormai precario status economico sociale dei propri cittadini, ritenendo che il proprio problema più importante sia impedire il più possibile l’immigrazione. Non dispone di un esercito comune. Non dispone di una politica estera comune. Non dispone di un seggio unico presso il Consiglio dei Sicurezza delle Nazioni Unite. Ha inoltre perso un pezzo importante, nell’abbandono del Regno Unito.
Nonostante l’Europa sia fra i principali responsabili storici di molti fattori d’origine delle crisi, dalle persecuzioni secolari degli ebrei all’Olocausto, dal colonialismo (ricordare che l’Italia possedeva una concessione territoriale in Cina, appare oggi ridicolo ancor prima che insostenibile), alla predazione contemporanea delle materie prime nei Paesi africani e arabi in cambio del sostegno a regimi improbabili, l’Unione è completamente afona. A questo proposito osservo che il Rappresentante Speciale della UE per i Paesi del Golfo, che nella crisi fra Israele e Palestina giocano un ruolo di una certa importanza, Luigi Di Maio, non ha rilasciato, in quest’ultimo mese, nemmeno un’intervista. Essendo Di Maio diventato un tecnocrate questo silenzio non è colpa sua, ovviamente: è la UE che non vuole esprimersi. Immagino perché non abbia la più vaga idea di cosa dovrebbe dire.
La quinta deduzione è che la divisione in sfere d’influenza globali concepita a Yalta è finita. L’Inghilterra si è auto ridotta ad una piccola potenza regionale, resa significativa unicamente dalla disponibilità dell’atomica che, come già ricordato, se non ha una funzione di deterrenza ha una funzione di distruzione complessiva, ed è dunque sostanzialmente inutile. La Russia, orfana dell’ideale comunista, che faceva da collante ideologico, non è l’Unione Sovietica ma solo uno sterminato Paese molto povero e arretrato (dunque più pericoloso) e, soprattutto, la Cina non è quella del 1945. Inesistente a Yalta, si avvia oggi a superare gli Stati Uniti, in tutto.
Quindi il vero conflitto di fondo è, come sappiamo tutti, fra queste due ultime potenze.
Se, alla luce di quanto detto, adesso torniamo a guardare alla su menzionata strategia di contenimento di Biden, la sensazione è che, per motivi diversi, l’America e la Cina stiano entrambe prendendo tempo, in vista dell’inevitabile scontro. L’America perché si rende conto che un conflitto con la Cina può esserle fatale. La Cina perché non è ancora del tutto pronta ad uno scontro diretto con l’America.
L’ultima deduzione è l’assoluta inadeguatezza delle classi dirigenti, in particolare della classe politica, rispetto ai problemi che le investono. Se guardiamo ai responsabili delle scelte politiche mondiali, l’unica figura che garantisca un minimo di sicurezza è quella di Joe Biden. Ma, al di là delle gaffes, Biden è comunque un uomo di 81 anni, e quasi certamente non farà un secondo mandato. La politica di contenimento potrebbe esaurirsi molto prima di quanto non ci si aspetti. Al di là dell’ansia di protagonismo di Emmanuel Macron, i leader europei semplicemente non esistono. Quelli dei Paesi direttamente coinvolti nei conflitti, come Putin e Netanyahu, sono del tutto screditati sul piano internazionale. Per un verso o per l’altro in difficoltà in patria, sono sostenuti obtorto collo dai loro sponsor maggiori, la Cina da un lato, gli USA dall’altro.
In particolare, la pazienza americana nei confronti di Netanyahu, mai amato dall’Amministrazione corrente, ha già mostrato, fra le righe, qualche segnale di esaurimento. E’ evidente che, più che a distruggere Hamas, compito quasi impossibile da portare a termine data la natura non statale, o non solo e non completamente statale, dell’organizzazione, l’azione di Israele in questo momento è principalmente rivolta a ripristinare la fiducia dei cittadini israeliani nella potenza militare della loro nazione, gravemente compromessa dal fallimento spettacolare della loro intelligence, considerata per certi versi la migliore del mondo, il 7 ottobre. Ma l’intensità con la quale Israele sta colpendo Gaza appare, anche agli occhi degli amici di Israele, Biden compreso (gli inviti alla moderazione da parte del Presidente americano si susseguono), sempre più sproporzionata rispetto all’esigenza di Netanyahu di riabilitare sé stesso e l’apparato di difesa israeliano agli occhi scioccati dell’opinione pubblica interna.
In considerazione di questi fattori, chi lavora per la Pace? Il pacifismo mondiale è frazionato in troppe organizzazioni, le cui basi ideali sono sovente sovrapposte ad altre questioni – la promozione del diritto internazionale, della democrazia, dei diritti civili, dell’ambientalismo, delle confessioni religiose ecc. La conversazione collettiva sulla Pace si traduce così spesso in un dibattito su altro. Questo è naturale, visto che, mentre la Pace è un obiettivo di civiltà, che per sua natura presuppone dibattito, la Guerra è la ricaduta in una dimensione elementare delle relazioni umane, che non ne presuppone alcuno. La Guerra è, per definizione, l’interruzione del dibattito. Tuttavia, per essere efficace il Pacifismo dovrebbe ritrovare un minimo comun denominatore ed attivarsi su un obiettivo preciso. Che, allo stato dell’arte, non potrebbe che essere quello di evitare lo scoppio della Terza Guerra Mondiale.
Da più parti si sente dire che la Terza Guerra Mondiale sia già scoppiata. Se certamente le crisi in atto ne configurano una possibile premessa, la Guerra Mondiale, intesa come la mobilitazione generale degli eserciti delle grandi potenze, non è ancora, per fortuna, scoppiata. L’unità delle forze pacifiste di tutto il mondo sarebbe cruciale per evitarla. Una mobilitazione generale del pacifismo occidentale non sarebbe sufficiente. Anzi, verrebbe percepita come un segnale di debolezza. Questo implica prima di tutto un grande sforzo per aiutare i pacifisti di Nazioni come Russia e Cina ad organizzarsi e a rafforzarsi.
Sarebbe possibile questo? Ovviamente si tratta di un’azione complessa, che non può nemmeno essere immaginata se non si parte dal presupposto che, in quei Paesi i pacifisti rischiano la galera, se non la vita. Questo significa che nessuna azione di sostegno potrebbe prescindere dal coinvolgimento attivo proprio di quelle organizzazioni sovranazionali, come le Nazioni Unite e l’Unione Europea, che al momento brillano per la loro debolezza ed inefficacia.
E veniamo così a trovarci nel bel mezzo di un circolo vizioso. La debolezza delle organizzazioni sovranazionali nate per garantire la Pace nel mondo ha condotto alla presente situazione di pre-conflitto mondiale, ed il movimento pacifista mondiale non può sperare di avere alcuna efficacia in assenza del sostegno attivo da parte di tali organizzazioni. Dunque, sembra purtroppo che il Pacifismo non abbia la possibilità di influire sui problemi in corso.
Siamo dunque destinati a vedere la Terza Guerra Mondiale? Certamente il posizionamento delle grandi potenze e di quelle regionali da loro controllate su fronti contrapposti si sta ormai cristallizzando. Ancora una volta è l’America, per via della posizione che ha assunto da ormai più di un secolo, di guida dell’Occidente, che deve trovare il modo di disinnescare il pericolo maggiore, anche perché in ultima analisi, è proprio la conservazione del suo status ad essere minacciata. E qui torna di nuovo la strategia di contenimento Biden. Se lasciare che i focolai si sfoghino può essere una strategia saggia nel breve periodo, non lo è nel medio lungo periodo. Una qualsiasi delle crisi in corso può degenerare in maniera incontrollata in qualsiasi momento, a causa di un errore, di un’ambizione personale, dell’imperizia politica dei dirigenti, della totale perdita di vista della Ragione, o della moderazione. Conviene inoltre più alla Cina che all’America prendere tempo.
Quindi se gli Stati Uniti volessero evitare una guerra globale, dovrebbero riconoscere i mutati rapporti di forza e convocare una nuova Yalta nella quale ridisegnare la mappa del mondo del XXI secolo, garantendo alla Cina quel “posto a tavola” che il grande Paese orientale si è comprato in questi ultimi tre decenni. Saranno poi la stessa Cina a ridimensionare le ambizioni russe, e la Russia a ridimensionare quelle iraniane, eccetera. Naturalmente non basta la disponibilità americana. E’ necessario che i suoi interlocutori si siedano al tavolo con la medesima lealtà. E’ possibile questo? Certamente vale la pena correre il rischio.
Tutto ciò significa che l’America è alla sua seconda vera prova come potenza egemonica mondiale, la prima essendo stata la Guerra Fredda. Per agire da vera potenza imperiale, però, dovrebbe per prima cosa risolvere la contraddizione ideale, che Cina e Russia non hanno, fra Democrazia e Impero. Ci ha provato, inventandosi “l’esportazione della Democrazia” che è la versione contemporanea della britannica “missione dell’Uomo Bianco”. Azioni di politica imperiale travestite da tentativi di portare diritti e libertà laddove essi mancano. Ovviamente non ha funzionato: per una larga maggioranza dei Paesi del mondo questa invenzione dei neo-con americani non è altro che un messaggio propagandistico a difesa degli interessi geopolitici ed economici degli USA e dell’Occidente.
Questo non significa che una parte dell’America non abbia sinceramente creduto nella sua missione di portare la Democrazia nel mondo. Abbiamo visto altri esempi nella Storia nei quali le grandi potenze hanno cercato di esportare le proprie conquiste ideali sulla punta delle baionette. Pensiamo a Napoleone ed agli ideali di libertà della Rivoluzione Francese. Purtroppo, non è così semplice: le evoluzioni del pensiero socio politico si formano da sé, o non si formano
Il centro della questione è il ripristino di un equilibrio pacifico fra grandi potenze, al fine di garantire la vita della maggioranza degli esseri umani. Proprio come in tutte le altre fasi della Storia. Democrazia e libertà non c’entrano per nulla. Si tratta puramente e semplicemente di riconoscere lealmente il peso specifico degli attori in campo e di trovare un accordo di convivenza sulla base di una valutazione puntuale della forza di ciascuno. Una pura operazione di ridefinizione delle sfere d’influenza.
Forse conviene sottolineare che, se questa ridefinizione non avverrà grazie alla lungimiranza dei politici, essa avverrà inevitabilmente al termine di una guerra mondiale. E, così la Prima Guerra Mondiale non fu sufficiente a dirimere tutte le questioni in campo, potrebbe non bastare la Terza.
Resta la domanda fondamentale. L’America sarà capace di tale lungimiranza? Sarà capace di abbandonare la retorica dell’esportazione della Democrazia sulla quale fonda da vent’anni la propria politica estera? E’ in grado di abbandonare la retorica del Bene contro il Male? Potrà farlo, a beneficio di una visione pratica, finalizzata ad un equilibrio di Pace per tutti i popoli, ed alla conservazione del proprio status, esercitando apertamente la propria funzione egemonica ed affrontando una volta per tutte la contraddizione fra Democrazia e Impero agli occhi del proprio elettorato?
Saprà l’America condividere il Potere?