Personalmente, non ho mai pensato di voler cambiare il mondo.
L’idea non mi ha mai neppure sfiorato. Quando ero molto giovane, questo sì, speravo di riuscire a vivere in un mondo non completamente iniquo, e pensavo che la Politica fosse la disciplina nella quale impegnarsi per poter ridurre le troppe ingiustizie e contraddizioni del vivere sociale. Detto questo, non mi sono mai impegnato attivamente in Politica, se non molto brevemente qualche anno fa, e solo a livello locale. Per indole non sono uno che partecipa alle manifestazioni di piazza, nemmeno quando ne condivide le motivazioni. Attorno ai vent’anni mi avvicinai timidamente, per un po’, alla Pantera universitaria. Ma durò pochissimo. La vita mi sembrava improvvisamente diventata un susseguirsi ininterrotto di slogan e dogmi. Non sono mai stato un tipo da stadio.
Eppure, la pulsione a “cambiare il mondo” è connaturata a tutti gli esseri umani, almeno quanto quella a volerlo conservare così com’è.
Quando ero giovane, complici anche anni di relativa pace sociale e di crescita economica in Italia, i famosi anni Ottanta e Novanta, credevo che fosse possibile ottenere i miglioramenti necessari grazie al dialogo fra tutte le parti sociali. Una delle caratteristiche che credo di possedere è quella di riuscire, almeno in parte, a vedere le ragioni dei punti di vista diversi dal mio e, in genere, di riconoscere loro pari dignità. Questo è un pregio che quasi tutti rivendicano ma, naturalmente, è molto più raro di quanto non si voglia ammettere.
Non si tratta quasi mai, infatti, semplicemente di comprendere il punto di vista dell’altro, ma di empatizzare con esso. Di comprenderlo emotivamente. Questo è molto più difficile. La capacità di mettersi “al posto dell’altro” procura, infatti, non poche difficoltà: vedere davvero le ragioni degli altri significa mettere seriamente in discussione le proprie.
Pensavo tuttavia che, se si fosse riusciti in questo difficile esercizio, anche il sistema socio economico nel quale tutti viviamo fosse riformabile a piacimento. Da tempo, non lo credo più.
O meglio, non credo più che la Politica, intesa come competizione di idee e di programmi, sia una strada percorribile, qualora si voglia veramente cambiare. I meccanismi che legano la politica ufficiale agli interessi economici sono infatti troppo complessi e rodati perché li si possa sensibilmente modificare. Non parlo, qui, di corruzione: ma proprio dell’intreccio inestricabile fra interessi economici “legittimi”, a volte persino “strategici”, e azione politica. L’aumento esponenziale della comunicazione politica e l’esigenza, da parte di qualsiasi gruppo politico in una qualsiasi democrazia occidentale, di garantirsi continuamente il consenso nel breve termine, ha ulteriormente inibito la capacità della Politica di farsi portatrice di una qualsiasi idea veramente rivoluzionaria.
Ora. Essendosi la Politica rivelata insufficiente per “cambiare il mondo”, negli ultimi anni il cambiamento è passato attraverso battaglie di carattere culturale. Questo è abbastanza naturale. Movimenti come il Me Too, l’attivismo LGBTQ, il Black Lives Matter, l’ambientalismo di Greta Thunberg, la Cancel Culture, l’atteggiamento “Woke” in generale influenzano e dividono l’opinione pubblica molto più del dibattito politico in senso stretto.
Tutto questo dibattito è accolto, da parte delle persone, talvolta con favore, talaltra con fastidio. Il fatto che molti di questi temi vengano in genere sposati dalla Sinistra politica internazionale che, nel frattempo, sembra sorda, o comunque largamente inefficace nella propria missione di far fronte alle crescenti difficoltà economico sociali di strati sempre più ampi della popolazione occidentale, contribuisce di molto al fastidio. I temi woke vengono spesso infatti percepiti come la foglia di fico dei “radical chic”: i famosi comunisti col Rolex (che, presumibilmente, non sono gli stessi che mangiano i bambini) i quali pontificano sul modo in cui dovremmo vivere mentre dimenticano di occuparsi di rendere la fiscalità più progressiva, di distribuire la ricchezza in modo più equo, o lasciano che le grandi multinazionali sfruttino il nostro lavoro e la nostra credulità senza muovere un dito ed, anzi, sostenendole nell’impresa.
Un altro motivo di fastidio è che, nascendo gran parte di questi movimenti negli Stati Uniti d’America, nazione caratterizzata da ontologico estremismo, ed essendosi estesi al mondo anglosassone in generale, alcune delle novità che si cercano di introdurre appaiono assurde al senso comune.
Ricordo una cena con un produttore americano, un paio di anni fa, che mi raccontava che ad Hollywood era ormai considerato impensabile per un uomo tenere una qualsiasi riunione a porte chiuse con una donna. Le porte degli uffici dovevano restare sempre aperte. E’ di questi giorni la notizia che il senato accademico dell’Università di Oxford ha deciso di “decolonizzare” il programma della Facoltà di Musica, riducendo la centralità di Bach, Mozart e Beethoven e ragionando su modi woke di modificare la notazione musicale, ad oggi il linguaggio più universale che esista, originata dal lavoro del nostro Guido d’Arezzo. Pochi mesi fa, Channel 5 ha annunciato l’intenzione di produrre una serie nella quale Anna Bolena sarà interpretata da Jodie Turner-Smith, un’attrice nera. Sono ormai quasi quotidiane le polemiche sulla cancel culture che si esercita su monumenti, film o libri ritenuti portatori di valori incompatibili con l’esigenza di affermare l’eguaglianza di tutti gli esseri umani.
Gran parte delle persone che conosco storce il naso di fronte a quelle che considera posizioni estreme. Quando ho saputo che Anna Bolena sarebbe stata interpretata da una donna di colore, o quando ho sentito che l’importanza attribuita alla musica di Bach viene ritenuta responsabile del dominio culturale dell’Uomo Bianco… quando ho saputo che si volevano abbattere le statue di Cristoforo Colombo, o che non si può parlare di compensi professionali o di strategie aziendali con una donna dietro ad una porta chiusa…e molte altre volte, anche io ho storto il naso.
Però, forse mi sbagliavo.
Perché, infatti, al di là dei rancori e dei pregiudizi politici, queste tendenze culturali sono a volte così disperatamente esasperanti? Non è forse perché esse mettono profondamente in discussione il nostro modo di essere, la nostra cultura dominante? Perché mettono in discussione noi e ciò in cui ci riconosciamo? E come dovrebbe cambiare il mondo, se non attraverso un cambiamento del modo in cui noi lo vediamo?
Ricordiamoci: comprendere le ragioni degli altri non significa solo comprenderle razionalmente, ma soprattutto comprenderle emotivamente. Mettere in discussione le proprie. Questo è esattamente ciò che la cultura woke ci costringe a fare.
E, dunque, esaminiamo qualcuno di questi “estremismi”.
Un amico (nero), mi ha fatto notare ad esempio che le stesse persone che si scandalizzano per la scelta della Anna Bolena di colore sono quelle che accettano senza battere ciglio la rappresentazione di Gesù Cristo come di un bel ragazzo bianco, biondo e con gli occhi azzurri. Mi si dirà che nessuna persona sana di mente, fermandosi a riflettere per più di venti secondi sul fatto che Gesù fosse nato a dieci chilometri da Gerusalemme, possa ritenere credibile che egli potesse essere biondo e con gli occhi azzurri. E tuttavia, il punto cruciale è esattamente questo: nessuno si sofferma su questo pensiero per più di venti secondi. Lo si dà per scontato. Ciò che conta, infatti, non è la realtà, ma la rappresentazione che ne diamo, e chi ha il potere di imporre al mondo questa rappresentazione.
Il mondo accetta senza discutere che Gesù fosse bianco e biondo perché l’Occidente lo ha così rappresentato per due millenni. Ma questa rappresentazione serve indubbiamente per stabilire un modello egemonico. La Cristianità si è identificata per secoli con l’Occidente, è dunque Cristo è caucasico. E chi può negare che tale rappresentazione sia stata strumentale alla costruzione di una presunta superiorità morale degli occidentali nei confronti delle altre popolazioni del mondo?
I ritratti di Anna Bolena la dipingono come una donna bianca, ma se la rappresentiamo come nera per un tempo sufficientemente lungo, nessuno penserà più al fatto che fosse bianca. A pensarci bene, in via puramente teorica, poiché di Anna Bolena possediamo unicamente dei ritratti ad olio, non abbiamo neppure la certezza matematica che ella fosse bianca. Nemmeno giudicando dalla sua celebre figlia. Diamo semplicemente per scontato che le celebrità europee del passato fossero bianche. Nell’immaginario collettivo, abbiamo cancellato qualsiasi ipotesi diversa. Quante persone sanno, ad esempio, che Alexandre Dumas padre, l’autore de I Tre Moschettieri era di origini etniche miste, fra l’altro anche molto evidenti? Che l’Imperatore romano Settimio Severo era “nero” (come testimoniano le monete auree che lo ritraggono con la moglie ed i figli, e sulle quali, diversamente dai loro, il suo volto è bronzeo)? Che Sant’Agostino era di etnia berbera?
L’iconoclastia è una brutta cosa, certamente. Eppure. Se un ragazzino nero nasce e cresce in un appartamento affacciato sulla statua di uno schiavista del passato, quale messaggio viene trasmesso al ragazzino, che lo introietta in modo inconscio? Che, dal momento che la statua non viene rimossa, la società nella quale egli è nato, vive e morirà, ritiene ancora oggi giusto celebrare uno schiavista. Può darsi che questa sia una lettura semplicistica: ma, ancora una volta, cerchiamo di empatizzare con il ragazzino. La prima volta che egli chiederà ai suoi genitori di chi sia la statua, essi gli racconteranno la storia di uno schiavista. Prima che il ragazzino arrivi ad un’età e ad un livello culturale sufficienti per farsi delle domande sulla opportunità, o meno, di abbattere le vestigia del passato, egli avrà assunto come dato di fatto che la statua non ha per lui e per i suoi avi lo stesso significato che ha per i bianchi. E che la società nel suo complesso è ancora felice di ribadire l’antico rapporto di potere.
Sulle occasioni professionali che il mondo offre alle donne un altro amico (maschio, bianco) mi ha fatto notare che il fatto che la vulgata politicamente corretta voglia oggi che le donne debbano ricoprire un certo numero predefinito di posti di responsabilità, tendenzialmente pari a quello degli uomini, a prescindere dalle loro competenze effettive, è un autogol per le donne ed uno svantaggio per la società in generale. La mancanza di competenze oggettive, infatti, non causerà che il loro fallimento e la conseguente inefficienza del sistema. Sarebbe molto giusto, se lo stesso discorso lo si facesse anche per gli uomini incompetenti, dei quali, grazie a Dio, non manchiamo. Un uomo incompetente non è “un uomo” incompetente, ma semplicemente un incompetente. Una donna incompetente, resta “una donna” incompetente. La sua incompetenza viene inconsciamente posta in relazione con il suo genere.
La musica di Bach è, per quanto mi riguarda, una delle espressioni più alte del genio umano in generale. E tuttavia, non esiste certo solo Bach. L’unico elemento che porta le persone come me ad arricciare il naso nel sentire la storia dell’Università di Oxford è il suo presupposto: non si vuole cercare di ristabilire un po’ di equità nella conoscenza del panorama mondiale, allargando gli orizzonti degli studenti con nuove informazioni. Ma si vuole con questo “punire” il povero Bach, che al panorama musicale mondiale non ha fatto che del bene. Eppure è incontestabile che l’Occidente abbia imposto la grandezza della propria arte al resto del mondo, e che il mondo, in termini generali, abbia finito con il far coincidere l’idea del capolavoro artistico con la sonata di Beethoven o con il quadro di Leonardo. Il fatto che esistano delle ragioni tecniche oggettive per definire alcune vette artistiche come universalmente eccezionali non intacca la verità di fondo che i criteri secondo i quali definiamo tali ragioni sono stati stabiliti da noi. Da noi maschi, bianchi, occidentali.
E dunque, siamo noi ad essere messi oggi in discussione. E’ evidente che questo ci fa paura. Il nostro inconscio si sente aggredito, e noi ci mettiamo sulla difensiva. Cerchiamo di opporre argomenti razionali. Polemizziamo. Combattiamo. Eppure, se ci sforzassimo di usare l’empatia come chiave di comprensione della realtà che muta attorno a noi, avremmo meno paura.
Questo concetto l’ho trovato mirabilmente espresso da una persona intervistata qualche settimana fa da Piers Morgan su Good Morning Britain, programma dal quale il giornalista è stato più tardi cacciato per aver reagito in modo troppo rozzo all’intervista di Meghan Markle. Il tema dell’intervista (che posto qui: https://www.youtube.com/watch?v=S1pW6r9kjiw&t=23s ), tuttavia, non aveva a che fare con la famiglia reale britannica, ma con la scelta, operata dall’intervistata e dai suoi due partner, di crescere i loro due bambini in modo “gender neutral”. In parole povere, si tratta di non legare il genere sessuale anatomico all’identità e alla personalità dei bambini.
La persona intervistata ha dato ai figli dei nomi che non li connotano sessualmente, e si rivolge a loro evitando di usare i pronomi lei o lui ed usando il voi, come si faceva in certe epoche passate. Secondo lei, i bambini devono vivere in un mondo non connotato sessualmente fino a che essi o esse non raggiungono l’età nella quale cominciano spontaneamente ad interrogarsi su questi temi: a quel punto, devono essere lasciati liberi di scegliere a quale identità di genere appartenere, se ad una delle due, o ad entrambe, indipendentemente dalla condizione anatomica di partenza. Il fatto che Morgan sia molto aggressivo con la persona intervistata, e che quest’ultima si esprima al contrario in maniera perfettamente civile, calma e comprensibile, mi ha fatto istintivamente propendere per lei.
Morgan si richiamava al buon senso. Cioè, alle nostre consuetudini. Alle nostre sicurezze. Una creatura che nasce con un pene è un maschio. Una creatura che nasce con una vagina, è una femmina. Morgan è tanto moderno e generoso che concede loro il diritto di scegliere di assumere una diversa identità di genere, se lo desiderano. Ma ciò deve necessariamente avvenire in modo consapevole e doloroso, in un confronto dialettico con la Società, con “lacrime e sangue” insomma, poiché essi devono implicitamente assumersi la responsabilità di abbandonare un’identità predefinita dalla Natura. Si tratta ovviamente di una forzatura culturale: la Natura ti ha dato un pene. Tu sei dunque un Uomo. Se decidi di diventare una Donna, non potrai che farlo soffrendo psicologicamente la decisione.
Ma la Natura, fra le sue tante caratteristiche, non annovera quella di avere una posizione etica o morale.
La Natura non aggancia alcuna identità di genere al pene o alla vagina. Siamo noi che leghiamo l’identità e la psicologia delle persone a questi dettagli anatomici. Ed, a pensarci bene, all’alba del ventunesimo secolo, pene e vagina sono le ultime caratteristiche anatomiche alle quali la nostra Società lega ufficialmente un qualsiasi significato psicologico. Per quanto si possa essere razzisti, la Società non lega più ufficialmente il pigmento della pelle al dover essere delle persone. Non si pensa più che una persona dall’aria sinistra e con la gobba sia un serial killer. Non si afferma più ufficialmente che una persona di statura particolarmente bassa sia probabilmente megalomane, o che le belle donne bionde siano stupide.
E tuttavia, se uno ha un pene, egli ha di base una identità maschile. Se ha una vagina, ha una identità femminile.
Indubbiamente, ad una prima istintiva valutazione, ho avuto difficoltà a “mettermi nei panni” della persona intervistata. E tuttavia, è solo così che il mondo può veramente cambiare. Il mondo cambia se ne cambiano i presupposti culturali più radicati e profondi. E non esiste presupposto più radicato e profondo di quello che alberga in noi stessi.
Non bisogna avere paura di questi cambiamenti, anche se si avverte istintivamente che si tratta di cambiamenti che ci mettono personalmente in discussione. Non bisogna resistere, nel tentativo di arginare il mondo che sembra scivolarci fra le dita. Bisogna lasciarsi andare, respirare a fondo, ed aggrapparsi alla certezza che il nostro cuore è un muscolo elastico: esso è capace di allargarsi abbastanza per contenere l’empatia necessaria per mettersi nei panni di tutti. Naturalmente, non è affatto detto che il cambiamento sia sempre meglio di ciò che c’era prima. Ma questo, è tutto un altro discorso.
Stefano, come ho scritto su Facebook, secondo me questo è il delirio delle Guardie Rosse di Mao che nel 1966 iniziato a distruggere tutti i templi cinesi con lo stesso concetto di Cancel Culture (attorno a Xiang furono abbattuti oltre 10.000 templi) ed imprigionati milioni di persone. La stessa logica di adesso: abbattiamo i competenti, non servono i tecnici ecc ecc . Poi dopo 10 anni di delirio, nel 1976, la Banda dei Quattro fu arrestata (se dio vuole) e Deng Tsiao Ping scatenò la reazione che poi fu seguita in Occidente dalla Thatcher nel 1979 e da Reagan nel 1980. Le conseguenze di quella svolta ancora si sentono. MI aspetto la stessa dinamica ma accelerata. Non so se hai letto che a Portland dove una parte della città è “Police Forbidden” (Defund Police) i crimini sono aumentati del 300% rispetto all’anno scorso. Quanto pensi che si debba aspettare per la reazione? E vedrai che sarà una reazione brutale perchè queste spinte iper-egualitarie portano alla “Jeunesse Doree” se non altro molto peggio!! Una nota su Gesù biondo: una osservazione giustissima ma la soluzione è rappresentare Gesù mediororientale (che sarebbe davvero rivoluzionario!!) e non fare Anna Bolena nera che fa ridere i polli. Altra nota su Bridgeton: la Regina d’Inghilterra del tempo era DAVVERO mulatta e nessuno la ha capito perchè hai messo neri dove non ha senso che stiano. Invece fare la storia di come una mulatta fosse la Regina d’Inghilterra era molto interessante. Vuoi fare una cosa interazziale costruisci qualcosa di nuovo ma non manipoli la storia. E’ come quando Stalin faceva cancellare Trotski dalle vecchie foto. Una abominio. Tutta la vita con Piers Morgan!!
Caro Luigi, comprendo benissimo il tuo punto di vista, e vedo anche io il rischio che derive estreme di queste forme di “risveglio” possano trasformarsi in vere e proprie forme di censura, più o meno violenta. E tuttavia, ripeto, il mondo cambia quando ne cambia la rappresentazione che ne diamo, poiché il mondo non è un luogo “reale”, ma un luogo immaginato. E’ troppo facile, e lievemente ipocrita, dire “invece di fare anna Bolena nera facciamo Cristo levantino” quando sul colore della pelle di Cristo si è edificata una storia bimillenaria. Il fare Anna Bolena nera non equivale a forzare nuovamente la Storia, ma a rivendicare la possibilità di riscriverla secondo nuovi parametri. Del resto, io ho più o meno la tua età, sono maschio, sono bianco, sono privilegiato: è perfettamente che gente come me e te si spaventi di fronte a questo.
Stefano, figurati se mi spavento. Io ho sempre pensato di cambiare il mondo per cambiare anche tutto a me va benissimo. Il problema è come. Ti faccio un esempio: io ho preparato il progetto di una Serie (in inglese) chiamata ” The Severis: The Black Emperors of Rome” che parla dei quattro imperatori romani di pelle scura. Si tratta di Settimio Severo, Caracalla, Eliogabalo e Alessandro Severo, cioè la famiglia dei Severi appunto. Il primo nacque a Cartagine e gli altri nella attuale Siria. Sono interessanti non solo perchè “neri” ma perchè impressero all’Impero due “torsioni” che prima non esistevano: a) la dittatura militare che di fatto soppresse il Senato (Settimio); b) il monoteismo imponendo per legge l’adorazione del “Sol Invictus” (Eliogabalo) che restò la religione dominante a Roma per 100 anni circa sino a che al posto del “Sol Invictus” fu sostituito un uomo chiamato “Joshua”. Nota che la cosa è evidente dal fatto che il giorno di celebrazione della nascita del Sol Invictus è il 25 Dicembre e anche Joshua viene indicato come nato il 25 Dicembre (giorno in cui il Sole inizia a risalire il suo ciclo annuale). Perchè ti dico questo? Perchè questo è un tentativo di portare alla luce la storia vera che è stata nascosta e non un ulteriore elemento di manipolazione. Stessa cosa si può dire se racconti come la Reggente Carlotta fosse mulatta (ad es. anche io vorrei sapere come si sia arrivati ad una cosa del genere). Rappresentare Joshua con la pelle come quella di un mediorientale sarebbe una vera rivoluzione A LIVELLO MONDIALE e nessuno a livello storico potrebbe alzare il divino. Invece queste operazioni di manipolazione saranno spazzate via appena la “Jeunesse Doree” (qui saranno le “Blanc Doree”? ) arriverà e avrà dalla sua anche gli storici e tutti rideranno di queste buffonate come adesso ridiamo delle richieste delle Guardie Rosse per avere il 6 politico per tutti o i medici che devono andare a fare i contadini e viceversa. La cosa che mi preoccupa è che dopo questa sbornia la reazione sarà feroce (tanta gente perderà la vita per questa cosa) e non si sarà fatto il minimo passo avanti nel capire la storia e che cosa è successo. Il problema è proprio che non hanno le palle… dovrebbero chiedere uno Joshua realistico e quindi con la pelle scura. Quello, nessuno realmente interessato a queste cose, potrebbe contestarlo e quello davvero potrebbe “epater le bourgeois” (non so il francese – mi perdonerai gli errori ). La mia sensazione è proprio che la risposta di Pier Morgan (che è laburista) sia il primo segnale che sta per iniziare la reazione a questo andazzo. Preparati a nuovi Deng Tsiao Ping, Thatcher e Reagan. Alla fine i Talebani vincono solo in Afghanistan. Non arrivano in Occidente anche se ci provano.
Ti ripeto: vedo i pericoli e sono d’accordo con te con la previsione di un reflusso. Ma parliamo di due cose diverse: tu parli di una rappresentazione veritiera della realtà. Io parlo di chi abbia il potere di rappresentarla. Quello che interessa alla cultura woke è impadronirsi di questo potere.