Il 10 giugno del 1974 Pier Paolo Pasolini pubblicò sul Corriere della Sera un articolo, che troverete nella raccolta Scritti Corsari, dal titolo “Gli italiani non sono più quelli” (in Scritti Corsari, si intitola “Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia”).
Nell’articolo, Pasolini ragionava intorno alla vittoria del No al referendum sul divorzio, del 12 maggio di quello stesso anno, per concludere che tanto la Democrazia Cristiana quanto il Partito Comunista, uscito apparentemente vincente dal risultato, avessero in realtà entrambi abbondantemente perso. Perso nella loro capacità di comprendere gli italiani.
Egli sostenne, in quello come in altri articoli sul tema, che “i ceti medi sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali, ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non nominati) dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. E’ stato lo stesso Potere – attraverso lo “sviluppo” della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a creare tali valori (…)”
Secondo Pasolini, L’Italia aveva votato No alla legge abrogativa del divorzio non perché fosse socialmente progredita, ma perché era ormai sedotta da un atteggiamento edonistico che le faceva considerare con fastidio l’idea di assumersi un impegno a vita. Ancora Pasolini: “L’omologazione culturale che ne è derivata (dall’esplosione del consumismo ndr.) riguarda tutti (…). Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista ed un qualsiasi cittadino italiano antifascista.”
Dire queste cose nel 1974, nel bel mezzo degli Anni di Piombo, dovette apparire come estremamente eretico. Pasolini non era l’unico intellettuale italiano del suo tempo ad aver avvertito la immensa forza psicologica dell’“American way of life” e la sua capacità di penetrazione nella società italiana, e occidentale in generale. La letteratura (ad esempio Bianciardi con La Vita Agra) e, soprattutto il cinema, praticamente tutto il meglio della commedia all’italiana, avevano ormai da molto tempo, sin dai primissimi anni Sessanta, identificato il nocciolo del problema. Ma Pasolini aveva definito politicamente, in modo preciso, il percorso verso il quale l’Italia era destinata.
A quasi cinquant’anni di distanza da quell’articolo gli italiani (e gli occidentali) fra gli otto, dieci anni ed i novanta, di ogni condizione sociale, sono quasi perfettamente identici. Ciò che li rende identici sono i loro consumi, e le loro aspirazioni a consumare ciò che viene prodotto per loro, finendo per essere vissuto da loro come essenziale. Non c’è quasi differenza apprezzabile fra un ragazzo di venticinque anni ed un uomo di cinquantacinque. Hanno lo stesso smartphone. Frequentano gli stessi social. Vestono, tranne che per piccoli particolari, nello stesso modo. Guardano più o meno le stesse cose sulle piattaforme.
Nella omologazione culturale di massa la tecnologia ha avuto un ruolo cruciale, e non solo negli ultimi trent’anni, con l’avvento di Internet, ma sin dai primi anni del Novecento. Ma senza il marketing la tecnologia sarebbe rimasta essenzialmente un’esperienza da nerd. La dimostrazione di quanto Pasolini avesse ragione sull’aspirazione al disimpegno, all’estetica, alla joie de vivre del cittadino occidentale medio è l’immenso successo di Apple, che per prima si rese conto che, per massificare la tecnologia, essa andava resa non più potente e performante, ma semplicemente più sexy.
In uno dei suoi memorabili monologhi, nel presentare i Golden Globes dell’anno scorso, Ricky Gervais ha pregato le star di Hollywood di astenersi dal fare discorsi di ringraziamento “politici”, non avendone essi secondo lui alcun titolo. “Quest’anno Apple è entrata alla grande nel mondo della televisione, producendo The Morning Show, una serie eccezionale sulla dignità e sul “fare la cosa giusta”, prodotta da un’azienda che sfrutta i lavoratori in Cina (…) Beh, voi dite che siete woke, ma le aziende per le quali lavorate… incredibile… Apple, Amazon, Disney…se l’Isis creasse un servizio streaming, voi chiamereste il vostro agente!” (mia traduzione). Per la cronaca, Tim Cook era presente in sala, così come i rappresentanti delle altre aziende citate.
Perché Gervais può dire queste cose in mondovisione, in faccia alle persone che insulta, ottenendone in cambio un grande applauso? Perché esse sono perfettamente vere. E non importa nulla a nessuno che lo siano: ne siamo tutti consapevoli. Noi tutti vogliamo i prodotti perché ci sono presentati come seducenti e, sostanzialmente, non ha alcuna importanza per noi il modo in cui essi ci vengono procurati.
In questo senso, proprio come aveva sostenuto Pasolini, non c’è oggi alcuna differenza fra un fascista e un comunista, fra un razzista e un antirazzista, fra un uomo e una donna, fra un bianco e un nero, fra un bambino e un adulto: siamo tutti, semplicemente, consumatori. Si tratta oggi di un’ovvietà, sia pure non sufficientemente ribadita, e soprattutto, non considerata appieno nelle sue conseguenze.
Cosa significa, infatti, essere tutti consumatori? Per prima cosa significa che non siamo più tutti cittadini. Abbiamo cioè smarrito la consapevolezza di avere dei diritti e dei doveri politici, prima che dei diritti socioeconomici, ed un obbligo politico verso i nostri discendenti. Il discorso pubblico attorno alla direzione che la nostra città, o il nostro Paese, o il nostro pianeta dovrebbe prendere nel lungo periodo è psicologicamente subalterno al soddisfacimento dei nostri desideri nel breve periodo.
Non siamo in grado di progettare perché non siamo in grado di superare il desiderio immediato di consumare. Quella insofferenza nei confronti dell’impegno che Pasolini identificava come la prima e principale causa della vittoria del No al Referendum del ’74 è la stessa insofferenza che ci impedisce di prendere sul serio i problemi ambientali del pianeta, e di agire di conseguenza, come collettività. Non esiste alcun progetto, di nessun tipo, che non proceda per tappe, il che contrasta violentemente con la voracità del nostro consumismo psicologico.
I limiti che ci sono stati imposti dalla pandemia sono stati vissuti dalla maggior parte di noi come fortemente invalidanti. Al di là delle discordanti opinioni intorno alla loro opportunità nella specifica occasione, ed ovviamente al di là dei loro effetti sul Lavoro, questo atteggiamento di generale fastidio dice molto della nostra Società. Molti di noi chiamano Libertà quella che, in fondo è, psicologicamente, semplicemente Insofferenza ai limiti, quale che sia il motivo per cui essi ci vengano imposti.
La difficoltà di accettare i limiti imposti dalla realtà è particolarmente evidente nei giovani di questa generazione. Non c’è genitore che non guardi con preoccupazione alla difficoltà crescente con la quale si cerca di imporre loro dei limiti all’uso dei social, o dei videogiochi, o delle droghe. Naturalmente, è la nostra mancanza di limiti che determina quella nei giovani.
Ogni volta che, senza che un oggetto di consumo si sia rotto, noi adulti ne compriamo un modello più recente, dimostriamo, nei fatti e nei comportamenti, e non nelle belle parole, ai giovani che, nella nostra società, la bulimia è consentita, ed anzi esaltata. La scomparsa dei “riparatori”, dei rammendi, dell’uso di accomodare gli oggetti nel nostro quotidiano è la rappresentazione plastica della nostra incapacità, come adulti, di porci dei limiti. Il successo di piattaforme di streaming che propongono centinaia di film e serie che nessuno di noi avrà mai tempo di vedere, e che ci mettono ogni sera, in particolare in epoca di pandemia e di coprifuoco, di fronte ad una scelta tanto vasta quanto assurda (lo dico da addetto ai lavori e, nel mio piccolo, da “contributore” del sistema) è una conferma quotidiana della nostra nevrosi bulimica. Gli esempi delle nostre contraddizioni agli occhi dei giovani, che non sanno verbalizzarle ma che le assumono psicologicamente, e che dunque che non possono difendersene, sono infiniti. Appunto, senza limiti.
Nessuno di noi è in grado, nell’ambiente in cui viviamo, di adottare, rispetto ad esso, comportamenti ascetici. Certamente non lo sono io. L’ambiente è ovviamente più forte del singolo. Ma è fin troppo evidente che la nevrosi sistemica della quale ognuno di noi è vittima produce conseguenze dannose sulla psiche dei giovani. La migliore definizione di Realtà che mi viene in mente, infatti, è quella di “dominio (nel senso di regno) dei limiti”. Dei propri, innanzitutto.
I giovani hanno bisogno di conoscere sé stessi, e la conoscenza di sé stessi avviene nel confronto con i limiti: l’assenza della percezione di essi comporta l’alta probabilità di precipitare in un delirio d’onnipotenza, accoppiato ad una violenta nevrosi di scacco, quando il confronto diventa inevitabile, ed al fallimento. L’alternanza fra sensazione di onnipotenza e fallimento crea una gioventù nella quale i disturbi schizo-affettivi sono immensamente più frequenti di quanto non fossero in passato.
La tonnara di passanti del titolo si riferisce dunque ai giovani ed ai giovanissimi. Sono loro i passanti che, con la nostra adesione ormai completa ed introiettata al conformismo consumistico del quale parlava Pasolini, noi “uccidiamo”. L’assioma secondo il quale bisogna “uccidere” il Padre per poter crescere è oggi rovesciato: il Padre “uccide” i Figli per poter continuare a cullarsi nell’illusione di un Tempo infinitamente protratto, nel quale il suo Desiderio possa essere infinitamente soddisfatto. Il trucco nel quale il “Potere” è riuscito meglio è stato quello di liberarci dalla consapevolezza dell’esistenza della Morte, cioè del Tempo.
Se solo saremo in grado di permetterci un’adeguata plastica facciale, noi non moriremo mai, ma cristallizzeremo la nostra vita in un eterno Presente, nel quale rifletterci all’infinito, come nello specchio d’acqua di Narciso.
Bella sintesi, Stefano. Sono d’accordo su tutto e sai che sono un estimatore di Pasolini. Una mente di una lucidità incredibile. Profeta appunto di ciò che si sarebbe verificato a livello socio-culturale-politico(economico) e che stiamo attualmente vivendo. Massacrato di botte e poi investito a morte perché aveva deciso di raccontare con “Petrolio” una verità scomoda per molti potenti di allora. Grazie.
Sulla morte di PPP ci sono tante e diverse ipotesi. Di certo Pelosi non era solo quella sera. Ti abbraccio
Sono d’accordo sull’analisi tua e di Pasolini circa il consumismo. Nel mio piccolo lo contrasto con una vita semplice e sobria, per quanto posso. D’altra parte oggi una parte della popolazione è costretta, suo malgrado, a scelte simili. Piccoli gruppi alternativi, che esistono in molti Pesi, non potranno incidere?
Penso che non molto possa essere fatto a livello individuale. Ma forse questa è solo una scusa.
Gli scritti di Pasolini dimostrano come un raffinato intellettuale fosse riuscito in un’analisi perfetta, e soprattutto in controfase con la percezione comune del tempo. Pasolini aveva compreso che in un mondo fortemente polarizzato, guerra fredda – anni di piombo, le enormi differenze si stavano polverizzando nella nascente categoria ontologica del “consumatore”. E oggi? Condivido del tutto la tua analisi, ma si comincia ad intravedere una crepa. Forse, per dirla usando il vocabolario pandemico, siamo in piena fase due. Pasolini vide l’uniformazione nelle differenze più sanguinose, piegate all’altare del consumo, come oggi, nel mondo della globalizzazione, della big net, si vedono evidenti processi di separazione, nascita di piccole riserve indiane, che hanno in rete i loro accampamenti, chiamati blog, pagine Facebook, gruppi Telegram. Forse perché il capitale ha fallito dove ha fallito anche il comunismo reale, non è riuscito a rendere tutti gli uomini uguali e non è riuscito a eliminare quella necessità umana di individuare un perché. Coloro che si sono ritrovati ai margini del sistema hanno sentito l’impulso di tornare a credere, di trovare un senso, travolti dalle macerie di un capitalismo che annaspa, che non riesce più a soddisfare con la stessa efficacia. Ma nell’epoca post ideologica – religiosa, si crede nelle teorie più assurde, posizioni antiscientiste, complottismi, assurdi regimi alimentari, ad ognuno il proprio vitello d’oro, che gli permetta di trovare sollievo da quel senso di incolmabile disperazione. I giovani sono la categoria più a rischio, perché si trovano a crescere quando un’epoca sta tramontando e un’altra, ancor più contorta, sta sorgendo.
Quello che dici è’ corretto, secondo me. Il capitalismo ha fallito laddove ha fallito anche il Comunismo: nella convinzione che la risoluzione dei problemi materiali dell’umanità fosse l’obiettivo principale da conseguire. In questo senso, poco importa il modo in cui i due sistemi si sono diversificati. Ma il fallimento del capitalismo è molto più difficile da capire, da notare, e da risolvere di quanto non sia quello del Comunismo, principalmente perché, nella sua forma concreta, il Comunismo non è stato in generale che una banale forma di totalitarismo. Il fallimento del capitalismo sta a quello del Comunismo come l’Alzheimer sta all’amputazione di un arto